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Venerdì 13 Giugno 2025 ore 14:00
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“La parola migrazione crea pregiudizio e spavento, anche a sinistra”

Intervista con la sociologa Stefania Tusini (Università per Stranieri di Perugia) sui risultati eclatanti del referendum sulla cittadinanza.

“La parola migrazione crea pregiudizio e spavento, anche a sinistra”

Dentro il mancato raggiungimento del quorum del referendum su lavoro e cittadinanza c’è un altro dato: il 35% dei votanti ha detto no al dimezzamento degli anni per diventare cittadino italiano per uno straniero maggiorenne extracomunitario, quasi il triplo rispetto a chi ha votato contro i quesiti sul lavoro. Se tra i cittadini chi non voleva modificare le norme sul Jobs act si è sostanzialmente astenuto dal voto, c’è una parte di elettorato che ha deciso, in una calda domenica di giugno, di andare alle urne per esprimere la propria contrarietà alla riforma della cittadinanza. Un elemento sorprendente non solo per la distanza con gli altri risultati, ma anche per l’identità del presunto votante: l’elettore progressista. Stefania Tusini, docente di sociologia delle migrazioni all’Università per Stranieri di Perugia, commenta con Huffpost il risultato del referendum e il valore della cittadinanza nel processo di integrazione dei migranti.

Professoressa, partiamo dal dato: 1 votante su 3 ha detto no al referendum sulla cittadinanza. Votanti che dovrebbero rappresentare la fetta più progressista del Paese. Sembra proprio che noi questi immigrati non li vogliamo.

Questa modalità di allargamento dei diritti dovrebbe essere sostanziale al Dna dell’elettorato di centrosinistra, ma nella realtà il centrosinistra non ha realizzato politiche progressiste sull’immigrazione. Non abbiamo degli esempi di leggi che abbiano aperto alle migrazioni in maniera ragionevole. Inoltre non possiamo dimenticarci che veniamo da anni in cui i termini con cui ci siamo riferiti alle migrazioni e ai migranti sono stati termini di guerra, di assalto, di invasione. Per cui è chiaro che nel ragionamento dei cittadini quest’idea di accorciare i tempi per avere la cittadinanza delle persone migranti è percepita come una sorta di pericolo.

Le grandi città hanno votato maggiormente per il sì, al contrario dei piccoli comuni dove ha prevalso il no. Come ce lo spieghiamo?

La xenofobia, la paura del diverso, diventa uno spauracchio se io non ho nessun contatto con lo straniero. Le città che sono abitate da persone con origini migratorie di prima o di seconda generazione, sono piene anche di persone che lavorano. Quindi l’abitante non vede solo la periferia e una propensione alla violenza ma una quotidianità in cui, ad esempio, tutti i lavori di cura sono fatti dalle immigrate. Dove il contatto è più rado, comunque c’è maggiore distanza, anche sociale, e il pregiudizio attecchisce meglio. In questo referendum c’è stata una reazione alla parola migrazione. Evidentemente i promotori non sono riusciti a spiegare adeguatamente questo quesito, ma la parola migrazione evoca comunque un pregiudizio e uno spavento.

Se continuiamo a non ascoltare le istanze dei migranti, non rischiamo di aumentare la tensione sociale?

La prima generazione migrante ha un atteggiamento conseguente alle sue condizioni e a una serie di debolezze: la difficoltà con la lingua, la fragilità giuridica, le condizioni lavorative. Poi la seconda o terza generazione che crescono o nascono nel Paese, non le hanno più e le loro aspirazioni diventano quelle di un qualsiasi ragazzo o ragazza italiano, e si innesca un meccanismo pericoloso che può portare a tensione come quelle che vediamo in Francia o a Los Angeles. Mentre l’aspirazione della prima generazione migrante è quella di dare un’occasione ai propri discendenti, per la seconda o terza generazione non è così, ha le stesse ambizioni di un ragazzo italiano o figlio di italiani. 

Perché siamo così gelosi della cittadinanza e pensiamo che vada conquistata?

Quando parliamo di razzismo, stiamo parlando di un atteggiamento di rifiuto verso qualche cosa che io non posso cambiare. Se non ti considero italiano perché hai il colore della pelle marrone e perché non hai discendenza italiana, oppure ti dico che non sei cittadino italiano perché non parli italiano, sono due cose completamente diverse. Nel primo caso posso parlare di razzismo perché io ti sto mettendo di fronte a una condizione che tu non puoi modificare. In Francia l’iter per la cittadinanza è più veloce e c’è un sistema di integrazione assimilazionista. In Italia invece noi chiediamo un’assimilazione all’identità italiana, ma poi diciamo che la cittadinanza è una chimera che arriva dopo dieci anni e oltre, perché ci sono i tempi per la domanda. Di fatto abbiamo un modello escludente, perché non abbiamo una politica di richiesta della cittadinanza che vada incontro alle rinunce dell’identità culturale di provenienza. Ed è il peggior sistema possibile perché tende a produrre delle tensioni.

Lo strumento della cittadinanza è veramente un mezzo per raggiungere l’integrazione?

La cittadinanza è un elemento fondamentale per l’integrazione, oltre al voto ho una libertà di circolazione interna ed esterna al Paese, diritti che eliminano una delle debolezze della prima generazione. Le seconde generazioni maturano delle frustrazioni dovute a questo sistema escludente che si osservano, ad esempio, anche nel percorso scolastico. Questi ragazzi spesso o abbandonano gli studi e si dedicano a lavori manuali o vanno negli istituti professionali, si crea così una segregazione scolastica. Situazione che cozza con le loro aspirazioni e con alcuni elementi tipici dell’identificazione giovanile e del codice del gruppo, come l’abbigliamento. La forte frustrazione a volte diventa rivolta.

di Giorgia Olivieri su HuffPost

 

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