Meloni indagata, non cada nella trappola che piegò il Cav
L’inchiesta che colpisce la premier e il cuore del suo governo ci riporta al ‘94, data del famigerato avviso di garanzia recapitato a Berlusconi. Ma denunciarlo come atto politico sarebbe un errore.
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L’indagine nei confronti della premier Meloni e al cuore del suo governo – il braccio destro Mantovano, il ministro dell’Interno e il Guardasigilli – è l’ennesima detonazione in una guerra tra toghe ed esecutivo che arriva nel momento in cui il Parlamento ha approvato la riforma della separazione delle carriere. Una riforma simbolo, una vera e propria trincea.
E non si può non tornare indietro al dicembre ‘94, al famigerato avviso di garanzia recapitato a Silvio Berlusconi durante un vertice dell’ONU a Napoli. Una notizia esplosa a mezzo stampa, finita in diretta sulla prima pagina del Corriere della Sera che portò alla fine del governo Berlusconi.
Intendiamoci: Meloni sa perfettamente che questa indagine non è un gesto neutrale eppure siamo convinti che denunciarlo come un attacco politico sarebbe un errore.
Perché è proprio quello che la magistratura si aspetta: un’eco, una reazione, qualcosa che trasformi un atto procedurale in una battaglia mediatica. Meloni deve disinnescare la miccia. Deve fare l’impensabile: mettere tra parentesi l’indagine, trattarla per quella che è – un passaggio tecnico – e andare avanti. Non per ingenuità, non per debolezza, ma per una strategia più ambiziosa: togliere alla magistratura il potere di influenzare la politica e condizionare il destino del governo con un semplice timbro.
È qui che si gioca la partita vera. Se Meloni riuscirà a separare nettamente il piano giudiziario da quello politico, avrà fatto ciò che nessuno, da Tangentopoli in poi, è riuscito a fare: emancipare la politica dalle toghe. E non sarà solo un bene per il governo, ma anche per la magistratura stessa, che deve tornare a essere ciò che dovrebbe essere: un potere autonomo, sì, ma confinato nei suoi limiti costituzionali.
Non fraintendiamoci: la valenza politica di questa indagine è evidente. Lo scontro sulla separazione delle carriere, l’ostilità aperta dell’Anm, il clima rovente tra toghe ed esecutivo sono il contesto perfetto per leggere questa inchiesta come un gesto simbolico, una dichiarazione di guerra. Ma proprio per questo Meloni deve resistere alla tentazione di trasformarla in una battaglia campale. Deve andare avanti come se niente fosse, lasciando che il caso segua il suo corso senza interferenze.
Perché la verità è semplice: un’indagine non è una sentenza. Non è un verdetto, non è una condanna. È un atto procedurale, punto. E se Meloni riuscirà a trattarlo come tale, se riuscirà a togliere alla magistratura il potere di destabilizzare la politica con un pezzo di carta, avrà vinto. E non solo per sé…
Davide Varì direttore de Il Dubbio
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