Anno: XXV - Numero 86    
Venerdì 17 Maggio 2024 ore 13:00
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La lotta di Classe nell’Avvocatura Italiana

Come scrive Mark Twain “È molto più facile ingannare la gente che convincerla che è stata ingannata”

La lotta di Classe nell’Avvocatura Italiana

Parto da un postulato facilmente dimostrabile: ogni riforma della previdenza significa precarietà. Questo perché ciò che si riforma si è formato in un contesto più favorevole, per demografia e reddittività. Si tratta in buona sostanza di rattoppare un vestito già logoro perché la previdenza è figlia del suo tempo nel senso che se cambia il mercato del lavoro, perché dal lavoro a tempo indeterminato si passa ad una sempre maggiore flessibilità e discontinuità, diversa deve essere la risposta previdenziale.

Lo scriveva il sociologo Luciano Gallino nel suo “La lotta di classe dopo la lotta di classe”.

Dopo l’avvento del neoliberismo globalizzato, l’1% della popolazione mondiale detiene il 45,6% della ricchezza mondiale, pari a 463.600 miliardi di dollari.

La grandezza si capisce meglio se confrontata con il nostro debito pubblico, pari a 2.741 miliardi!

Oggi la lotta di classe non è più quella ottocentesca tra la classe operaia e quella datoriale bensì, tra chi maneggia, attraverso la finanza, il capitale e che contrasta, nel suo interesse espansivo, lo sviluppo della classe media.

La stessa dinamica si ritrova, puntualmente, anche nel microcosmo dell’avvocatura italiana dove il 7% del totale degli iscritti a Cassa Forense detiene quasi il 50% del monte redditi dell’avvocatura, pari a 8,5 miliardi all’anno.

Su questa realtà si cala la riforma della previdenza forense che, pur mantenendo segretato l’articolato, ha già incontrato, nella presentazione delle slide, il favore del CNF, di OCF, dei COA e delle Associazioni maggiormente rappresentative, quali ANF e AIGA, e questo perché è reputata a favore di quel 7% che governa l’avvocatura italiana e che tiene in scacco quel 93% che invece sbuffa sui social ma non eleva la protesta a proposta di cambiamento, nemmeno attraverso il voto per Cassa Forense, COA e OCF, che semplicemente diserta, e questo è un fenomeno che andrebbe attentamente studiato.

Scrive Luciano Gallino che: “Vi sono fenomeni della natura di cui è possibile costruire una spiegazione molto complicata solo assumendo che esistano delle variabili nascoste alla percezione dell’osservatore. Esistono invece dei fenomeni sociali che vengono spiegati con grande semplicità dallo stesso osservatore nascondendo al pubblico la maggior parte delle variabili. Rientrano in questa categoria le proposte di riforma delle pensioni”.

Questo spiega, secondo la mia interpretazione, la segretazione della riforma che incide su di un testo unico di ben 112 articoli, rispetto agli 85 di quello attuale, ivi compreso il regolamento Sta, cumulo ecc.

Eppure riscuote il consenso dei vertici della avvocatura come se, un avvocato, potesse esprimere giudizi su un testo che non conosce!

Ma questo è perché l’avvocatura si muove per le elezioni ai COA ma non per la riforma della previdenza forense!

L’avvocatura italiana deve fare i conti con la demografia, finalmente in calo, e con la contrazione del mercato del lavoro che avrebbe bisogno di una rivitalizzazione e di una redistribuzione del PIL, tagliando privilegi e arroccamenti corporativi.

La previdenza non può che risentire di questi mali e andare in sofferenza anche per il fenomeno della “finanziarizzazione” della contribuzione.

Mi pare utile leggere il lavoro del sociologo Andrea Ciarini che qui propongo:

«Finanziarizzazione del welfare

Definizione

Per “finanziarizzazione del welfare” possiamo intendere la crescente interdipendenza tra offerta di protezione sociale e mercati finanziari. Tra tagli alla spesa sociale e stretti vincoli di bilancio, la ricerca di soluzioni alternative alla spesa pubblica è un fenomeno che taglia trasversalmente diversi settori: pensioni, sanità, educazione e più di recente anche le politiche sociali e di contrasto alla povertà. Il coinvolgimento di capitali finanziari e investitori privati nel welfare territoriale può contare su una gamma ormai estesa di strumenti, alcuni rivoti ai provider, profit e non profit, altri ad amministrazioni e autorità pubbliche territoriali in partenariato con pool variegati di investitori, provider e agenzie indipendenti di valutazione d’impatto. In molti paesi europei diverse banche hanno lanciato forme di raccolta del risparmio (Social Bonds) da destinare al finanziamento di singole organizzazioni di terzo settore o imprese sociali sotto forma di prestiti agevolati e finanziamenti a impatto. Allo stesso modo, anche strumenti finanziari più complessi, come i Social Impact Bonds (SIB), hanno iniziato a diffondersi, finanziando partenariati pubblico-privato in cui vengono ad essere coinvolti le amministrazioni locali, gli investitori, i provider, i beneficiari delle prestazioni e agenzie indipendenti di valutazione degli impatti sociali (Pasi, 2014). Inizialmente introdotti nel Regno Unito (Azemati et. al., 2013; Dowling, 2017) e di seguito promossi in diversi altri paesi europei (compresa di recente anche l’Italia), i SIB sono forme di investimento nel sociale che puntano a garantire un ritorno sul capitale investito attraverso le riduzioni di spesa prodotte dai progetti finanziati (in partenariato con le amministrazioni). Naturalmente trattandosi di un vero contratto tra due o più contraenti e di “pagamenti a risultato” (payment-by-results), il ritorno sul capitale investito dipende dal successo dei progetti selezionati, più nello specifico dal raggiungimento degli obiettivi posti alla base dell’attivazione del partenariato. È infatti in conseguenza di ciò che le amministrazioni conseguono quei risparmi di spesa con i quali ripagare gli investitori. Al contrario, l’insuccesso del progetto, può prevedere il mancato pagamento degli interessi sul debito contratto, con conseguenze negative per l’investitore. Da qui la centralità e l’importanza della valutazione d’impatto come strumento di governo dei nuovi rapporti pubblico-privato.

Il dibattito teorico

Per un filone di letteratura ormai consolidato (Streeck, 2015; Dowling, 2017) i processi di finanziarizzazione, di cui strumenti come i SIB e la finanza di progetto sono diretta espressione, vanno interpretati nell’ottica di un progressivo spiazzamento delle leve di intervento pubblico, non solo assoggettando l’offerta di protezione sociale a logiche finanziarie ma soprattutto stabilendo un ordine di priorità e di interessi da tutelare a vantaggio degli investitori e a discapito dei diritti sociali (Streeck, 2015). In questa prospettiva di analisi, “austerity permanente” e finanziarizzazione dell’economia sono elementi strettamente connessi, l’uno speculare all’altro, la prima impedendo manovre espansive attraverso il bilancio pubblico, la seconda fornendo risorse private finalizzate a compensare i tagli alla spesa sociale, ma al prezzo di interessi che vanno a remunerare gli investitori. Le pressioni che emergono in questa direzione sono destinate ad avere impatti significativi sui rapporti tra pubblico e privato nel welfare. Non è da oggi, tuttavia, che i circuiti della finanza hanno iniziato a interagire con l’offerta di protezione sociale. Già Colin Crouch (2009) con l’espressione “keynesismo privatizzato” aveva messo in evidenza anni addietro i nessi di funzionalità reciproca tra finanziarizzazione dell’economia e tagli alla spesa sociale pubblica. Il riferimento va qui in particolare a quel sistema di crediti “facili” e liquidità a basso costo che per una lunga fase ha controbilanciato le spinte alla crescita delle disuguaglianze e alla diminuzione del potere d’acquisto dei ceti medio-bassi nel ciclo seguito alla crisi del compromesso keynesiano. Diversi studi hanno in seguito enfatizzato questa connessione, mettendo in evidenza come il credito facile, in particolare nei paesi anglosassoni, abbia consentito di ridurre consistentemente la domanda di spesa pubblica per il welfare, funzionando come vero e proprio strumento di protezione sociale, soprattutto nei confronti delle fasce di popolazione più a rischio marginalità e dipendenti dalle prestazioni sociali pubbliche (Hay, 2011). In un quadro di crescente residualizzazione dell’offerta pubblica, il credito a basso costo e la stessa bolla immobiliare trainata dalla finanza, hanno consentito in questo modo di convogliare risorse private verso beneficiari privati di diritti sociali e di reddito, ma messi nella condizione di accedere al consumo e anche a beni fondamentali come la casa, al prezzo però di un forte indebitamento privato. È stato questo, in effetti, il trade-off che ha sottostato all’ascesa della finanza come mezzo di protezione sociale. La novità degli ultimi anni è che anche il finanziamento dei servizi e le politiche sociali sono entrati a pieno ritmo in questi meccanismi di crescita trainata dalla finanza (cfr. Baccaro e Howell, 2017), sulla scia di riforme volte, da un lato a privatizzare i servizi pubblici, e dall’altro a garantire alternative di investimento all’industria finanziaria. Dal sostegno al consumo a debito di consumatori e cittadini-utenti spinti a indebitarsi per accedere a beni fondamentali come la casa, il riposizionamento di investitori e capitali finanziari inizia a riguardare il finanziamento diretto delle istituzioni pubbliche, forzate, a causa dei pressanti vincoli di bilancio, a indebitarsi per finanziare infrastrutture sociali e servizi altrimenti non disponibili. Alcuni studiosi (Azemati et al., 2013) hanno avanzato critiche alla crescita di questo processo di finanziarizzazione. Prima di tutto, il rischio di un’ulteriore ondata di privatizzazioni e assoggettamento a logiche finanziarie dei servizi pubblici. In secondo luogo, il possibile prodursi di effetti creaming, ovvero la selezione avversa nei confronti dei soggetti più vulnerabili e progetti più rischiosi. Terzo punto, il ridursi della valutazione di impatto a una mera misurazione degli outcome sociali più funzionale al rimborso del capitale investito che non alla presa in carico dei beneficiari. Infine, il rischio di una eccessiva concentrazione degli investimenti su un gruppo ristretto di grandi provider privati e no profit, più attrezzati rispetto alle piccole organizzazioni sociali, nell’intercettare e coagulare intorno a sé risorse finanziarie che richiedono strutture di gestione molto più strutturate e complesse rispetto al passato.

In Italia

L’Italia è un caso interessante. Anche questo paese è esposto a forti vincoli di bilancio che limitano, soprattutto a livello territoriale per effetto della crisi, la spesa pubblica in favore dei servizi di welfare e dei progetti di innovazione sociale. Parallelamente sono andate crescendo le spinte in direzione dell’apertura all’ingresso di capitali privati nel finanziamento dei medesimi servizi. Nel 2017 è stato lanciato il primo SIB italiano a Torino grazie a una partnership Ministero di Grazia e Giustizia, Human Foundation e la Fondazione Sviluppo e Crescita controllata dalla Cassa di Risparmio di Torino (Fondazione di origine bancaria azionista del gruppo Intesa-San Paolo). Da notare che il lancio di questo progetto ricalca negli obiettivi il primo SIB lanciato nel 2010 nel Regno Unito. Si tratta infatti anche in questo caso di un progetto finanziato per ridurre la recidiva. L’avvio del primo SIB italiano è un fatto significativo, cui potrebbero seguire altre iniziative analoghe. Resta il fatto che siamo di fronte a un ecosistema finanziario ancora a uno stato embrionale, senza avere ancora raggiunto né una massa critica, né una caratterizzazione di fondo, tale da identificare un modello di intervento compiuto. Va inoltre detto che le traiettorie di finanziarizzazione non vanno circoscritte all’ambito, sia pure significativo, dei SIB. Sono in realtà molteplici i canali di investimento nel welfare, così come gli attori che iniziano a muoversi nel mercato dell’investimento sociale: fondazioni di origine bancaria, banche, fondazioni filantropiche, in un crescendo di sperimentazioni territoriali che alimentano (soprattutto nelle regioni centro -settentrionali) un flusso crescente di risorse private per l’innovazione sociale (Ferrera e Maino, 2014). Diverse banche italiane hanno lanciato in questi anni social bonds per raccogliere capitale da destinare, sotto forma di donazioni o prestiti agevolati, a organizzazioni di terzo settore. Tra il 2012 e il 2014, sono stati 54 i social bonds attivati in Italia per una raccolta che è arrivata a 560 milioni di euro (AA.VV., 2014). Si tratta di un volume di risorse certamente considerevole che però fuoriesce dai confini dell’investimento a impatto. Diverso è il discorso per le fondazioni bancarie, principalmente per il fatto di contribuire a mobilitare risorse private destinate al finanziamento di servizi sociali e di partenariati pubblico-privato, comprese alcune forme sperimentali di impact-investing. Le 88 fondazioni di origine bancaria attualmente operanti in Italia erogano finanziamenti di varia natura in favore di attività culturali, del patrimonio artistico, di organizzazioni di terzo settore e anche del welfare locale, in particolare social housing, contrasto della povertà minorile e assistenza per gli anziani. Gli interventi di welfare hanno assorbito nel 2016 risorse pari a 293 milioni di euro, più 120 milioni per l’istituzione di un fondo espressamente dedicato al contrasto della povertà minorile. In linea generale investimenti di questo tipo tendono a supplire alle carenze dell’offerta pubblica territoriale, in special modo nelle aree di intervento più sguarnite, o per mancanze di risorse o per la tradizionale assenza di servizi. La nuova normativa sul terzo settore ha introdotto alcune novità sul piano del finanziamento bancario e non bancario per il terzo settore, ad esempio istituendo strumenti come i social bonus (un credito d’imposta per favorire il recupero di beni pubblici inutilizzati) o i titoli di solidarietà (obbligazioni e titoli di debito emessi da istituti di credito per finanziare gli impieghi in favore delle organizzazioni di terzo settore) che nelle intenzioni del legislatore dovrebbero concorrere a canalizzare risparmio privato sull’economia sociale. Si tratta tuttavia di logiche diverse da quelle tipiche dell’impact-investing anglosassone. In primo luogo, per il fatto di non essere condizionate a risparmi di spesa pubblica con cui garantire il pagamento degli interessi. In secondo luogo, per la diversità delle risorse finanziarie mobilitate, provenienti in questo caso dal risparmio privato. In terzo luogo, per il fatto di collocarsi in un panorama finanziario fortemente banco-centrico e imperniato su ruolo guida delle fondazioni bancarie e più di recente anche di Cassa Depositi e Prestiti (di cui peraltro le fondazioni sono il secondo azionista dopo lo Stato). Questa varietà di istituzioni e soluzioni finanziarie che contraddistinguono il contesto italiano ha caratteristiche tali da farne un modello a sé stante, sia pure ancora a uno stato embrionale. Naturalmente questo non basta di per sé al per mettersi al riparo da logiche estrattive o effetti creaming, ad esempio nella selezione dei progetti da finanziarie o dei gruppi target di utenti sui quali sperimentare forme di finanza a impatto. Lo stesso vale per le organizzazioni sociali e il terzo settore, spinte a riorganizzarsi per dotarsi di leve finanziarie e strutture in grado di attrarre questo tipo di finanziamenti. C’è poi una questione di asimmetrie interne, date dal fatto che la stragrande maggioranza di queste istituzioni finanziarie no profit si trova nelle regioni centro-settentrionali e che per statuto sono chiamate a investire nelle aree territoriali di riferimento. La presenza di forti disuguaglianze su base regionale nell’offerta di welfare è un fenomeno di lungo periodo in Italia, non strettamente dipendente dalla ricerca di soluzioni alternative alla spesa pubblica. Va detto tuttavia che questi processi, se non ricondotti dentro una logica di sistema, corrono il rischio di aumentare le distanze, già da tempo evidenti, tra regioni che possono contare su estese reti associative, servizi pubblici efficienti e oggi anche investitori finanziari – il Nord e il Centro-Nord (Ascoli e Pavolini, 2015) – e le regioni del Sud, più deboli su tutti questi fronti e ancora più spinte verso i margini.

Finanziarizzazione e agency degli attori

A causa delle misure di consolidamento fiscale le spinte verso la finanziarizzazione sono in crescita. E l’attenzione verso strumenti come i SIB o la finanza di progetto ne è una testimonianza diretta. Questo avviene però all’interno di differenze tra paese a paese che rimandano a questioni cruciali per l’analisi comparata, come il tipo di investitori prevalenti, la loro mission, la quantità e la natura delle risorse investite, i condizionamenti istituzionali ereditati dal passato, le metodologie di valutazione di impatto e la stessa nozione di impatto sociale, tutt’altro che comunemente diffusa e accettata. Tutto questo contribuisce a definire un campo non solo in rapida evoluzione ma anche estremamente disomogeneo. Da questo punto di vista, non siamo di fronte a un mercato degli investimenti sociali che ha caratteristiche comuni nei diversi paesi, né che tende a evolversi secondo la direzione indicata dal contesto nel quale prima e di più è andato avanzando il processo di finanziarizzazione del sociale, ovvero il Regno Unito. Vi sono pressioni comuni che vanno in direzione dell’allargamento delle fonti di finanziamento private, comprese quelle di natura finanziaria, ma risposte istituzionali che continuano a evidenziare una certa variabilità, per effetto dei condizionamenti istituzionali ereditati dal passato (su tutti, quelli legati agli assetti istituzionali del welfare) e delle diverse strategie adottate dagli attori, pubblici e privati. E qui tornano di importanza le risorse di potere a cui gli attori chiave, comprese le amministrazioni e le stesse parti sociali, attingono per perseguire i propri obiettivi e strutturare le coalizioni di interessi in grado di sostenere in una direzione o nell’altra il mutamento istituzionale, anche quello che impatta con le pressioni alla finanziarizzazione. Su tutto questo abbiamo a disposizione ancora poche ricerche. È però un terreno di analisi fondamentale per capire e in certa misura anche orientare il cambiamento.» http://www.disuguaglianzesociali.it/glossario/?idg=34

Come insegna il prof Umberto Triulzi: «la finanza da sola non è sufficiente ad assicurare la crescita economica, occorrono anche: – un quadro macroeconomico internazionale stabile

 – istituzioni finanziarie solide (sia internazionali che nazionali)

– regimi normativi funzionanti

– sistemi di sorveglianza efficienti

– società di revisione contabile indipendenti

 – livelli di informazione adeguati a valutare le opportunità di investimento.»

Consiglio altresì la lettura della “Lotta di classe nell’epoca della finanza moderna” di Antonio Pagliarone, Joseph Baines, Sandy Brian Hager, Juklius Hrein, Andrei Klimax,Zhun Xu,Ying Chen, Ali Alper Alemdar, Asterios Editore, Trieste 2022, dove, alla pag. 39, è dato leggere: «L’economia costruita negli ultimi decenni non è altro che un economia di accumulazione di capitale e finché i rendimenti sul capitale superano i rendimenti sul lavoro, i maggiori detentori di capitale ricevono i maggiori benefici, la disuguaglianza aumenta e la ricchezza si concentra sempre più nelle mani di pochi. Il lavoro – incluso il lavoro d’élite – viene inevitabilmente lasciato indietro. Gli intellettuali marxisti  hanno analizzato queste dinamiche per quasi due secoli, ma spesso hanno frainteso gli effetti politici di questi sviluppi, che si svolgono principalmente all’interno della classe dirigente elitaria, piuttosto che all’interno del binomio capitalisti – proletari».

Secondo i dati di Cassa Forense, un avvocato ogni otto ha un reddito proveniente da un cliente unico che è il titolare dello studio.

Si tratta del fenomeno, ormai noto, dell’avvocato monocommittente che interessa una platea stimata in circa 30 mila unità..

Si sono susseguite le proposte di legge per disciplinarlo ma, a tutt’oggi, nulla ancora di concreto, nonostante la mozione 141 approvata nel Congresso Forense.

E questa, a mio giudizio, è la cartina di tornasole dei mali della avvocatura italiana, insieme al valzer delle poltrone, reso ancora più avvincente dal limite dei mandati che, da contenimento dello “spirito di servizio” in quanto per la Suprema Corte la ratio del divieto in questione è quella di assicurare la più ampia partecipazione degli iscritti all’esercizio delle funzioni di governo degli Ordini, favorendone l’avvicendamento nell’accesso agli organi di vertice in modo tale da garantire la par condicio tra i candidati, suscettibile di alterazione per effetto di rendite di posizione, nonché di evitare fenomeni di sclerotizzazione nelle relative compagini, potenzialmente nocivi per un corretto svolgimento delle funzioni di rappresentanza degli interessi degli iscritti e di vigilanza sul rispetto da parte degli stessi delle norme che disciplinano l’esercizio della professione, nonché sull’osservanza delle regole deontologiche, si è ben presto trasformato nell’additivo al valzer perché la fantasia creativa dell’élite non conosce confini.

Oggi siamo in piena bagarre per il rinnovo dei COA e molti si interrogano sul contenuto del dichiarato “spirito di servizio” perché nel valzer i nomi sono quasi sempre gli stessi!

Ma sono l’unico a scriverlo e quindi sono l’unico a non aver compreso nulla del sistema, oltre a quelli che davvero si candidano per lavorare per la categoria!

C’era una volta l’odio di classe ora c’è il web come scriveva Gian Franco Caminiti «Siamo miti privatamente, odiamo pubblicamente, così, a prescindere. Ecco, magari si potrebbero rovesciare le cose: “odiare” privatamente, guardare con occhio lucido e intelletto fino il mondo come propriamente è – non esattamente il migliore dei mondi possibili – e essere miti pubblicamente.»

 

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