Anno: XXV - Numero 76    
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Giustizia: la vendetta della “Casta”

L’interessamento della politica per la Giustizia ha un andamento carsico, riemerge a tratti, generalmente in concomitanza di un evento che coinvolge qualcuno “che conta”.

Giustizia: la vendetta della “Casta”

Accade sostanzialmente dal 1992, da quando uno scandalo, neppure troppo grosso, l’inchiesta su Mario Chiesa, amministratore del milanese Pio Albergo Trivulzio, ha avuto l’effetto di scoprire un vasto sistema di illeciti che aveva come protagonisti operatori economici ed esponenti, spesso eminenti, dei partiti politici.

Subito definita “Tangentopoli”, la vicenda ha avuto una straordinaria vetrina mediatica sulla carta stampata e sulle televisioni, rivelando nell’opinione pubblica un desiderio, a tratti spasmodico, di una giustizia sommaria che aveva le caratteristiche di una sorta di “resa dei conti” tra il popolo che stringeva la cinghia e la “Casta” opulenta, arricchita dal malaffare, corrotta e corruttrice. riemerge a tratti, generalmente in concomitanza di un evento che coinvolge qualcuno “che conta”.

In quei giorni sui teleschermi scorrevano le immagini dei potenti messi alla sbarra da uomini in toga presto divenuti famosi, implacabili accusatori di potenti costretti a difendersi in condizioni difficili. Stavano lì frastornati, chiamati a rispondere di accuse che mai avevano immaginato sarebbero state mosse loro. Volti pallidi, occhi smarriti, labbra balbettanti, politici amati o odiati, potenti con i loro apparati, i loro uffici, le loro scorte che, al suono delle sirene, consentono di superare le auto dei normali cittadini in fila ai semafori, appaiono agli occhi degli italiani persone tutto sommato modeste, messe in crisi dalle accuse di impiegati dello Stato cui la legge attribuisce il compito di far rispettare le regole che i potenti hanno scritto, tuttavia certi che mai sarebbero state applicare nei loro confronti.

Il pentolone del malaffare fa emergere giorno dopo giorno fatti nuovi e via via più gravi, come in un effetto domino, perché chi sa comincia a parlare, per evitare il carcere e per accreditarsi agli occhi dei Pubblici Ministeri come vittima, non corruttore ma concusso, costretto a cedere per la necessità di far andare avanti l’impresa, per senso di responsabilità nei confronti delle proprie maestranze e, soprattutto, della propria famiglia, dei figli. Un tasto che in Italia si batte sempre sapendo che convince.

In questo contesto, tra titoloni di giornali e servizi televisivi e radiofonici che mandano in diretta interrogatori e inchieste una voce si alza, autorevole e dignitosa, quella del Segretario del Partito Socialista Italiano, ex Presidente del Consiglio, Bettino Craxi che prende la parola nella sede propria della politica, la Camera dei deputati. È il 3 luglio 1992, l’aula è piena e attenta. Le parole del leader socialista somigliano a quelle di un Pubblico Ministero implacabile: “E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. […] Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”.

Nessuno si alzò, nessuno prese la parola.

In quei giorni, da Vice Procuratore Generale della Corte dei conti seguivo le inchieste milanesi. Molte avevano aspetti di nostra competenza. Lo Stato aveva subito danni, per la lievitazione dei costi di opere e forniture che avevano dovuto coprire l’importo delle tangenti. Ma c’era anche un diffuso danno all’immagine delle istituzioni, una fattispecie perseguita anche dalla Corte dei conti, dopo la sentenza della Cassazione sul “danno morale” subito dallo Stato per effetto delle attività illecite di pubblici amministratori e dipendenti nell’acquisto di aerei Locked. Ricordo le interlocuzioni con la Procura della Repubblica di Milano e mi tornano in mente alcune riflessioni di colleghi, a caldo, mentre “mani pulite” è ancora viva: passata la tempesta la politica si vendicherà dei giudici.

Ed ecco, infatti, che emergono nel dibattito fra i partiti, nelle iniziative di alcuni, intenzioni di intervenire per ridimensionare talune fattispecie criminose (l’abuso d’ufficio, il concorso esterno in associazione mafiosa) in un dibattito che affronta anche aspetti processuali, la prescrizione soprattutto, l’agognata conclusione dei processi da parte degli imputati i quali sanno che non potranno sperare in una sentenza di assoluzione. E le intercettazioni, strumento indispensabile nelle inchieste per corruzione e mafia, che vengono prese di mira per talune divulgazioni improvvide sui giornali, sicché la politica rivendica il diritto alla riservatezza delle vicende personali. E denuncia il numero ed i costi elevati delle attività di ascolto.

Tuttavia, mentre giustizialisti e garantisti si scambiano accuse roventi, i cittadini si rendono conto che alla Casta non interessano i problemi dei più, che sono connessi alla durata dei processi civili e penali, che è negazione della giustizia con perdita di prestigio della Magistratura e, in fin dei conti, dell’autorevolezza dello Stato e dell’autorità della legge. A taluni politici, consapevolmente o meno, interessa la resa dei conti con pubblici ministeri e giudici, che indagano e condannano, e prendono spunto da errori di giudizio, anche gravi, anche obiettivamente imperdonabili, eppure perdonati dal Consiglio Superiore della Magistratura, che hanno destato scandalo, per accusare tutti di invasioni di campo alle quali intendono mettere fine per ristabilire il primato della politica e la sovranità che appartiene al popolo e per esso agli eletti, anche se in effetti nominati da una ristretta cerchia di privilegiati, e non a funzionari dello Stato espressione di quello che è solo un ordine, quello giudiziario, anche se esercitano una funzione che è un potere dello Stato.

E così esponenti politici della maggioranza rivendicano di operare per adempiere al mandato elettorale e ricollegano gli elementi fondamentali della riforma che si vorrebbe attuare ai casi Santanché e Del Mastro, così dando involontaria dimostrazione che si vuole la riforma dell’informazione di garanzia perché l’ha ricevuta il Ministro del turismo, e l’eliminazione del rinvio a giudizio da parte del Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) in dissenso del Pubblico Ministero, perché è accaduto nel caso dei presunti documenti riservati portati fuori del Ministero della Giustizia dal Sottosegretario Del Mastro. Poi c’è l’abuso d’ufficio, peraltro già riformato nel 2020. Il tutto condito con la vulgata della paura della firma che impedirebbe ad amministratori e funzionari di assumersi le loro responsabilità nel timore di finire sotto processo, penale o contabile. Ma non si dice che molti di coloro che sostengono di temere nell’esercizio delle loro funzioni sono, in realtà, incapaci o disonesti.

Sono, dunque, sospette alcune accelerazioni della riforma. Né la politica è messa al riparo dalla scarsa considerazione che i cittadini hanno per i magistrati i quali subiscono gli effetti negativi dell’inefficienza dell’apparato giudiziario che, più correttamente, dovrebbe essere addebitato alla politica, perché è lei che fa le leggi.

Naturalmente per confondere le idee ai cittadini si sostiene che è la magistratura, in particolare l’Associazione Nazionale Magistrati, che va all’attacco del Governo e della sua maggioranza, che denuncia i pericoli per la democrazia. Ad esempio, perché il Ministro Nordio e gli emuli di Berlusconi evocano la separazione delle carriere. Un tema sul quale torneremo più dettagliatamente. Basti oggi ricordare che nel regime fascista la regola è che “il pubblico ministero è il rappresentante del potere esecutivo ed è posto sotto la direzione del ministro di Grazia e Giustizia”. Che poi i magistrati del Pubblico Ministero fossero assolutamente indipendenti fa loro onore. Ma quella era la regola. Basta aggiungere un’altra regoletta, quella che esclude l’obbligatorietà dell’azione penale, garanzia necessaria perché la legge sia uguale per tutti, e il gioco è fatto. Si inquisisce solo chi decide il Nordio di turno.

Tangentopoli è vendicata!

Di Salvatore Sfrecola (già Presidente di Sezione della Corte dei conti Presidente dell’Associazione Italiana Giuristi di Amministrazione)

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