Anno: XXVI - Numero 227    
Martedì 25 Novembre 2025 ore 13:30
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Diecimila avvocati per il sì alla separazione tra giudici e Pm.

I magistrati chiusi nell’auto-referenzialità del potere.

Diecimila avvocati per il sì alla separazione tra giudici e Pm.

Proviamo a guardare le cose da un altro punto di vista. Secondo i 9.000 magistrati (in maggioranza quasi totalitaria) la Riforma minerebbe l’indipendenza del pubblico ministero. In realtà, lo ripeto, nessuna norma della Riforma autorizza questa interpretazione: il pubblico ministero resta magistrato nella carriera requirente, con garanzia costituzionale di indipendenza da ogni altro potere. Tuttavia teniamo pure, per un momento, in sospeso questa affermazione. D’altra parte, circa 10.000 avvocati penalisti sostengono che, invece, la Riforma garantirà il giusto processo, ponendo finalmente parità tra accusa e difesa. Allora la domanda è: possibile che 10.000 avvocati, professionisti di rango intellettuale e di competenza pari a quella dei magistrati, siano pericolosi portatori di un attentato alla Costituzione? La risposta, una volta tanto, la do io: no, non è neppure pensabile. Allora, la diversità delle vedute è nella diversa prospettiva, dalla quale si guarda alla Riforma ed al tema che essa pone: la parità delle parti nel processo penale.

Ancora una volta, è il dato psicologico che spiega le cose. Guai a pensare che siamo esseri soltanto “razionali”. I magistrati guardano la Riforma dal lato di chi esercita un Potere. Ipocrita nasconderlo: hanno il potere enorme di incidere sulla libertà e sulla vita degli altri e raramente ne rispondono. Chi ha potere, avverte punture di vespa ogni volta che qualcuno appena soltanto “parla” di avvicinarglisi. Figuriamoci se qualcuno cerca di modificarglielo. Gli avvocati, dal loro canto, guardano le cose dal punto di vista di chi subisce questo Potere.

Allora, cari Colleghi magistrati, giudici e pubblici ministeri – abituati (!) ad ascoltare le prospettazioni difensive prima di decidere ed a tenere il giudizio sospeso sino all’ultimo secondo: non vi rendete conto che la percezione psicologica di chi subisce il potere vi è contraria? Non capite che c’è la reale, odiosa, inaccettabile percezione che esista uno squilibrio tra accusa e difesa? Non comprendete che a questa percezione di una intera classe forense deve corrispondere un dato di realtà, che vi sfugge e del quale occorre, invece, tenere conto e che, chiusi nella vostra auto-referenzialità, vi ostinate ad ignorare? Per la semplice ragione che il processo penale non vi appartiene, più di quanto non appartenga alla classe dei difensori; che non ne siete i proprietari esclusivi. Poi, cari Colleghi tutti, convincetevi di una verità finalmente: il processo penale non ha la finalità di “cercare la verità”, come spesso sento dire. Gli inquisitori: loro, cercano la Verità, sino a cavare l’anima alle persone. No. Il processo penale, imbrigliando il conato accusatorio dello Stato, vietando, limitando, consentendo a certe condizioni, riesaminando, invitando alla disciplina e imponendo lealtà ha quale finalità garantire l’equità dell’accertamento ed evitare l’infamia dell’errore giudiziario. Soltanto a questa condizione possiamo accettare che per giudizio di un suo simile, un essere umano perda la sua libertà.

La separazione delle carriere allontana il sospetto inaccettabile dell’attrito mentale di contiguità, dovuto alla colleganza, tra chi accusa e chi giudica; dà presidio ordinamentale alla “credibilità” della terzietà del giudice, credibilità che è pietra d’angolo della qualità di una decisione penale, per chi deve subirla. La fiducia non deve essere riposta nel buon cuore del singolo magistrato, bensì nel Sistema, che garantisca un processo equo. La speranza è una virtù teologale. Nel mondo della giurisdizione valgono le norme.

Di Gennaro Varone (Pubblico ministero a Pescara)

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