Università assediata: dogma ideologico traveste la libertà di parola
Quando la protesta si muta in censura e la parola diventa crimine, l’università smette di educare e inizia a giudicare. L’episodio Fiano a Ca’ Foscari non è un caso isolato: è il segnale di un’epoca in cui la purezza ideologica sostituisce il pensiero critico, e la tolleranza diventa arma di esclusione.
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L’università, nella sua concezione più alta e nobile, è sempre stata il luogo dove le idee si confrontano, dove il dissenso non è un pericolo ma una condizione necessaria per il pensiero critico. In tempi passati, questo principio era condiviso persino in contesti politici e culturali estremamente polarizzati: dai dibattiti tra marxisti e liberali negli anni Settanta fino agli scontri tra cattolici e laici negli anni Ottanta. Oggi, tuttavia, sembra che l’aria che si respira nei nostri atenei abbia mutato il suo sapore: non più confronto, ma giudizio; non più argomentazione, ma sentenza preventiva. L’episodio che ha visto Emanuele Fiano interrotto a Ca’ Foscari da attivisti pro-Palestina non è solo un caso di irruzione scomposta: è un vaso emblematico di ciò che sta accadendo, un segnale di allarme per chi ancora crede che la libertà di parola sia il pilastro della vita accademica.
Gli attivisti che hanno fatto irruzione, con cartelli e slogan, hanno agito mossi da una convinzione morale assoluta, ma la loro azione rivela una contraddizione fondamentale: l’università è trasformata in tribunale delle coscienze, dove chi non aderisce alla linea ortodossa del giorno rischia l’ostracismo, la delegittimazione o la censura diretta. Il principio che guida questi nuovi censori non è l’analisi, non è il dialogo: è la certezza ideologica, che sostituisce la ragione, e la purezza morale, che sostituisce l’argomentazione. Si tratta di un fenomeno che, per la sua gravità, non può essere confinato al singolo episodio. Storicamente, il contrasto tra libertà di parola e imposizione ideologica ha sempre avuto esiti drammatici. L’Italia del XX secolo ne fornisce esempi tragici: dalle leggi razziali fasciste, che espulsero studenti e professori dagli atenei, fino ai tentativi di monopolizzare il discorso culturale durante il clima ideologico dei primi decenni repubblicani. Oggi, invece, il meccanismo appare più subdolo: non è lo Stato a proibire, ma l’ideologia a censurare. Non sono le leggi a impedire il dibattito, ma la morale vigilante degli attivisti a trasformare l’“opinione diversa” in pericolo sociale.
È un fenomeno che porta con sé una sottile forma di violenza culturale. Chi protesta in nome della giustizia globale e della solidarietà internazionale rischia di cadere nella trappola del moralismo selettivo. L’attacco a Fiano non era solo contro una persona o contro un partito; era la dichiarazione che il dissenso rispetto a una certa narrativa, anche minima, non è tollerato. Questo atteggiamento tradisce il concetto stesso di università, che dovrebbe educare alla complessità, al dubbio e alla capacità di argomentare anche quando le posizioni sono scomode o impopolari. Si può essere contrari a certe politiche o ideologie, si può discutere dei conflitti internazionali, ma trasformare il dissenso in censura è un atto che ferisce il cuore della convivenza democratica.
Ciò che rende il fenomeno particolarmente insidioso è la sua giustificazione morale. La purezza ideologica diventa scudo, e la virtù presunta dei censori diventa strumento di esclusione. Il progressismo accademico, che per decenni si è presentato come garante della libertà e del pluralismo, oggi mostra una frattura inquietante: da un lato proclama la tolleranza e l’inclusione, dall’altro esercita una forma di moralismo censorio che vieta di ascoltare chi ha opinioni diverse. È una contraddizione evidente, eppure raramente nominata come tale. In questo contesto, il caso Fiano non è un episodio isolato, ma un simbolo della degenerazione del dibattito universitario: l’atto di censura diventa spettacolo morale, e la violenza ideologica si camuffa da protesta legittima.
La protesta in sé è legittima, ma quando diventa censura e imposizione morale, si trasforma in violenza culturale. La ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, ha riconosciuto la gravità dell’accaduto contattando personalmente Fiano per esprimere solidarietà e proponendo di ritornare insieme a Ca’ Foscari per riprendere il dibattito interrotto, a dimostrazione che l’università può e deve essere uno spazio di confronto civile. Il gesto della ministra non è un atto simbolico fine a se stesso, ma un richiamo concreto al principio che la libertà di parola non è negoziabile e che ogni atto di censura deve essere respinto. La sua posizione sottolinea l’importanza di un intervento istituzionale che ribadisca il valore del dibattito accademico e il rispetto della pluralità delle opinioni.
Un altro aspetto da considerare è l’effetto sul corpo studentesco e sul personale docente. La paura di essere contestati o pubblicamente delegittimati genera autocensura, e l’autocensura è il vero nemico della libertà accademica. Quando il dibattito è governato dalla paura di offendere l’ortodossia del momento, il pensiero critico si riduce a pura formalità, l’argomentazione diventa esercizio accademico e il coraggio intellettuale viene soppiantato dal conformismo morale. L’università così concepita smette di essere un laboratorio di idee e diventa un’arena morale, dove il valore delle persone è misurato non dalla loro capacità di pensare criticamente, ma dalla loro adesione a un codice ideologico mutevole.
La situazione è resa ancora più paradossale dalla retorica che circonda questi atti. La censura è spesso mascherata come difesa dei valori più alti: inclusione, giustizia, solidarietà. La logica è semplice: chi contesta la mia narrativa non è solo un avversario, è un nemico morale, un traditore dei principi universali di equità. Così, la difesa di cause giuste diventa giustificazione della violenza ideologica, e il fine dichiarato – la giustizia, la moralità – trasforma il mezzo – la censura – in strumento legittimo. Questa inversione dei valori è pericolosa, perché normalizza l’intolleranza sotto forma di virtù, e insegna alle nuove generazioni che il potere di interrompere, escludere o intimidire è un diritto civile, quando in realtà è la negazione del principio stesso di cittadinanza democratica.
Non si può ignorare, infine, il rischio che queste dinamiche escano dall’università e influenzino la società in generale. Il modello del tribunale morale universitario, del vigilante ideologico che decide chi può parlare e chi deve tacere, può facilmente estendersi ad altri ambiti: media, politica, organizzazioni civiche. Se la censura preventiva diventa normale negli atenei, la stessa logica può applicarsi alla vita pubblica, alle amministrazioni, alla cultura, e perfino alla politica nazionale. L’episodio Fiano, quindi, non riguarda solo un dibattito interrotto, ma anticipa uno scenario in cui la libertà di espressione è subordinata al potere della morale selettiva, e in cui il dissenso diventa sospetto di colpa ideologica.
L’analisi del fenomeno non può prescindere da una riflessione sulle responsabilità dei corpi accademici. Rettori, docenti, associazioni studentesche hanno il compito di difendere la libertà di parola e di garantire che gli atenei rimangano luoghi di confronto, non di imposizione morale. Quando chi dovrebbe educare tollera o addirittura incoraggia la censura, si costruisce un sistema che premia l’intolleranza e scoraggia la ricerca della verità. È per questo che la posizione della ministra Bernini è significativa: essa riafferma il principio che nessuna causa, per giusta che sia, può giustificare la cancellazione del dibattito e del confronto civile.
La sfida per il futuro è quindi duplice. Da un lato, occorre riaffermare con forza i principi della libertà accademica, del pluralismo intellettuale e del rispetto del dissenso; dall’altro, è necessario sviluppare una cultura della responsabilità morale che non confonda la giustizia con la censura, la virtù con il dogma, l’impegno civile con la repressione del pensiero. Le università hanno il compito di educare cittadini consapevoli, capaci di affrontare la complessità del mondo senza ricorrere a scorciatoie morali, senza delegare la propria capacità di giudizio a slogan e cartelli. Solo così l’esperienza accademica tornerà a essere laboratorio di idee, spazio di crescita e luogo in cui il dibattito non è rischioso, ma fondamentale.
In definitiva, l’episodio Fiano a Ca’ Foscari deve essere letto come un campanello d’allarme. Esso segnala il rischio concreto che il moralismo selettivo e il dogmatismo ideologico penetrino nelle istituzioni formative, sostituendo la dialettica con la censura, l’argomentazione con il tribunale morale, e la libertà con la paura. La memoria storica, il coraggio intellettuale e l’impegno civile devono convergere per difendere ciò che rende un’università veramente libera: il diritto di parlare, di ascoltare e di essere messi in discussione. Chi tace di fronte a questa deriva diventa complice, e chi accetta il dogma come norma dimentica che il pensiero critico non è mai optional, ma condizione di ogni società che si proclami democratica e civile. L’intervento della ministra Bernini, nel riaffermare la libertà del dibattito e la necessità di riprendere il confronto interrotto, rappresenta un segnale chiaro: la politica e l’istituzione possono e devono difendere l’integrità del sapere, respingendo ogni tentativo di trasformare l’università in un’arena morale dove il giudizio sostituisce l’argomentazione.
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