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«È una pedofila», in cella per una foto sbagliata. Prosciolta dopo 14 mesi

In cella per una foto sbagliata: la storia di Anna Maria Manna

«È una pedofila», in cella per una foto sbagliata. Prosciolta dopo 14 mesi

Palangiano, un comune in provincia di Taranto, verso la fine del 1999 finisce sulle prime pagine dei giornali per una brutta storia di pedofilia: alcuni alunni della scuola elementare, tra i 10 e i 12 anni, hanno raccontato alle loro maestre di essere stati adescati per partecipare a festini porno e incontri a sfondo sessuale.

I carabinieri, incaricati di far luce sull’accaduto, sospettano il coinvolgimento di una trentina di persone: tra queste, Anastasia Montanariello e Anna Maria Manna, entrambe incensurate.

Manna, all’epoca trentenne, è originaria di Verbania e vive a Palagiano, dove il papà è il comandante dei vigili urbani. In quell’anno ha appena vinto un concorso come impiegata comunale a Torino.

Le indagini sono condotte in maniera alquanto “empirica”: i carabinieri, dopo aver ascoltato le testimonianze dei bambini, creano una sorta di album in cui vengono messe insieme diverse foto prelevate dall’ufficio anagrafe del Comune, da sottoporre alle piccole vittime per il riconoscimento. Anche la foto di Anna Maria Manna finisce nel fascicolo degli inquirenti: si tratta di uno scatto in cui la donna ha 17 anni ed è molto diversa da come appare all’epoca delle indagini, soprattutto per l’acconciatura.

I bambini, con una procedura confusa, la riconoscono come una delle donne coinvolte in quegli incontri. Ciò basta a farla ritenere colpevole.

Alle 5 del mattino del 25 maggio 2000 i carabinieri si presentano a casa di Anna Maria Manna a Torino. Cercano Anastasia Montanariello, un’amica di sua sorella, che lei conosce poco e che alloggia da quest’ultima. I militari le chiedono di salire in macchina per accompagnarli dalla Montanariello.

Arrivati sul posto, la donna comincia a intuire che qualcosa di molto grave stava accadendo: ad Anastasia Montanariello è stata appena consegnata un’ordinanza di custodia cautelare. E a quel punto, lo stesso documento viene dato anche a lei.

Una volta in caserma, la donna cerca di spiegare che si tratta di un errore, ma è inutile. Dopo qualche ora finisce nel carcere “Le Vallette” in isolamento.

Il primo interrogatorio davanti al gip, durante il quale spera di poter chiarire tutto, non sortisce effetto. Passa una settimana e viene trasferita nel carcere di Taranto, dove la detenzione si trasforma in un inferno: essendo considerata colpevole di un reato così infamante, viene emarginata e minacciata dalle altre detenute. Visto il clamore mediatico, il sindaco di Palagiano annuncia di volersi costituire parte civile.

La difesa si basa su due elementi fondamentali: Anna Maria Manna non conosce i bambini vittime, né i loro genitori né tantomeno gli altri indagati. E soprattutto, nel periodo in cui si sarebbero svolti i fatti non si trovava a Palagiano, ma a Torino per sostenere il concorso, poi vinto, da impiegata comunale.

Il legale della donna, l’avvocato Rosario Orlando, presenta una prima istanza di scarcerazione che il Tribunale di Taranto respinge, disponendo gli arresti domiciliari. Passeranno altri due mesi prima che della scarcerazione per motivi di salute: Anna è deperita, ha perso moltissimo peso e le sue condizioni continuano a peggiorare.

Dopo quattro mesi dall’arresto, si svolge l’incidente probatorio. La donna viene posta dietro un vetro insieme con altre, tra cui Anastasia Montanariello. Ai bambini viene chiesto di segnalare chi partecipava agli incontri sessuali, ma nessuno di loro la riconosce.

Il 13 luglio 2001, quattordici mesi dopo l’arresto, Anna Maria viene definitivamente riconosciuta innocente: è lo stesso pm a richiedere l’archiviazione al gip.

Durante il procedimento, per la cronaca, sono acquisite registrazioni da cui emerge che alcune risposte dei testimoni vennero travisate o addirittura trascritte male al solo scopo di aggravare la posizione delle indagate.

Per l’ingiusta detenzione Anna Maria ha ricevuto un risarcimento di circa 35 mila euro.

L’avvocato Orlando ha voluto raccontare questa terribile storia in un libro dal titolo “L’Offesa”, in vendita da questa settimana.

«Leggendolo, si ha modo di capire che cosa voglia dire finire vittima di un errore giudiziario nel nostro Paese. La vicenda mette insieme, in un colpo solo, tutte le cause più frequenti di ingiusta detenzione: dalla sciatteria investigativa alle false accuse di soggetti facilmente influenzabili, come i bambini al centro di questa storia; dai riconoscimenti fotografici ad alto rischio di errore da parte dei testimoni a quella visione col paraocchi che ancora oggi contraddistingue l’operato di certi pubblici ministeri», afferma l’avvocato tarantino.

Il libro ha avuto il patrocinio di Errorigiudiziari.com, l’associazione fondata dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone che da anni si occupa di raccogliere storie di malagiustizia.

Tratto da Il Dubbio

© Riproduzione riservata

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