Trump e Netanyahu: chi comanda davvero?
A Doha hanno parlato i droni, a Washington le balbettanti smentite.
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Donald Trump, davanti ai cronisti affamati di domande, balbetta una smentita: “No, non ero stato avvisato”. Un presidente degli Stati Uniti ridotto a negare l’evidenza, come uno scolaretto colto a copiare. Perché la verità è che nessuno, tantomeno Benjamin Netanyahu, ha la minima intenzione di chiedere permesso a Washington.
L’attacco con droni a Doha, nel cuore del Qatar, non è stato solo un’operazione militare. È stato un atto dimostrativo. Israele ha colpito dove si trova la più grande base americana del Medio Oriente, il quartier generale del Centcom. Ha sfidato, senza neanche troppi giri di parole, l’ombrello stellato che da decenni protegge Tel Aviv. E Trump? A negare, a inseguire, a promettere “una dichiarazione completa”. Domani, forse.
Intanto restano due immagini: le esplosioni che bucano il cielo di Doha e il volto imbarazzato del “Tycoon” che non comanda neppure nel cortile della sua caserma. Non è questione di radar, Patriot o Iron Dome: nessun sistema d’arma può coprire il vuoto politico di un presidente che subisce e basta.
Netanyahu conosce bene la musica. Da anni gioca sul filo della dipendenza militare e sull’autonomia politica. Prende gli aiuti americani, ma poi decide da sé quando colpire, chi colpire e come. Al massimo avvisa per cortesia. E se la Casa Bianca protesta, lui sorride: sa che nessun presidente — né democratico né repubblicano — rischierà davvero di voltargli le spalle.
Il resto sono chiacchiere. C’è chi sussurra di dossier, di segreti in cassaforte, di ombre di Epstein. Ma la sostanza è molto più semplice: Netanyahu non teme Trump. Lo usa. Sa che in campagna elettorale il presidente ha bisogno della carta israeliana. Sa che, davanti al proprio elettorato, Trump non può permettersi di passare per “traditore” di Israele. Risultato: il premier israeliano si muove come un padrone di casa, mentre il presidente degli Stati Uniti recita la parte dell’ospite smarrito.
In Medio Oriente le percezioni contano più delle dichiarazioni. E oggi la percezione è lampante: Netanyahu decide, Trump obbedisce. La superpotenza planetaria, con i suoi aerei, le sue basi e i suoi generali, costretta a rincorrere un alleato che si comporta come fosse il vero comandante in capo.
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