Sinistra divisa sul referendum
Il Pd si spacca
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La riforma della giustizia voluta dal governo Meloni sta diventando, per il Partito Democratico, molto più di una semplice questione istituzionale: è un banco di prova identitario. Dentro il partito guidato da Elly Schlein si è infatti aperta una frattura che attraversa generazioni, culture politiche e sensibilità giuridiche. Da un lato chi teme che la riforma — e in particolare la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri — sia un tassello di un disegno autoritario; dall’altro chi la considera una misura di modernizzazione e di civiltà giuridica, un passo dovuto verso una giustizia più equa e trasparente.
Le parole di Goffredo Bettini, figura di riferimento della sinistra interna e tra i padri fondatori del Pd, fotografano bene la complessità del dibattito. «Il principio della separazione delle carriere è riconosciuto da molti — ha dichiarato in un’intervista al Tempo — ma il modo unilaterale di procedere del governo, l’attacco generalizzato alla magistratura, il rischio di un assoggettamento del pm all’esecutivo, scoraggeranno molti progressisti a votare sì». Bettini non chiude però la porta a una riflessione più ampia: «Si doveva rimanere sul merito, con una discussione responsabile. All’ultimo valuterò anch’io con molta attenzione il mio voto».
Dietro questa cautela si intravede una convinzione antica: rafforzare le garanzie per gli imputati, che spesso si trovano soli di fronte alla forza dello Stato. Ma Bettini lega il tema della giustizia a un quadro più largo, accusando il governo di voler concentrare tutto il potere sulla premier, di svalutare il Parlamento e di agire come un “carro armato” sull’informazione e sulla società civile. Per questo, il voto sul referendum, se confermato, rischia di diventare anche un giudizio politico sul governo Meloni.
Tuttavia, non tutti nel Pd condividono la linea della segretaria e dei vertici. Un gruppo di esponenti di lungo corso, dai riformisti ai liberal-socialisti, ha deciso di rompere il fronte del no. Tra loro ci sono il costituzionalista Stefano Ceccanti, l’ex senatore Giorgio Tonini, Enrico Morando, Claudia Mancina, Cesare Salvi e Claudio Petruccioli. Quest’ultimo, già braccio destro di Achille Occhetto, ha dichiarato al Foglio che voterà a favore della riforma, rivendicando il diritto di «mettere al centro l’equilibrio tra poteri, come previsto dalla Costituzione e dalla grande lezione del liberalismo di sinistra».
A loro si uniscono voci esterne ma di area democratica come Paola Concia e Chicco Testa. «La separazione delle carriere — sostiene Concia — è la regola in tutte le democrazie contemporanee, siamo noi l’eccezione. Trovo incomprensibile che la sinistra regali al centrodestra una battaglia di progresso e civiltà». Per l’ex deputata, la riforma non rappresenta un pericolo ma un’occasione per garantire processi più equi e per rafforzare la figura del giudice, libero da ogni commistione con l’accusa. A convincerla anche l’introduzione del sorteggio per il Consiglio superiore della magistratura, vista come una possibile fine del potere delle correnti.
Un’area del partito più prudente, ma non meno critica verso la corporazione togata, è quella rappresentata da Michele Emiliano. L’ex magistrato, oggi governatore della Puglia, ha invitato l’Associazione nazionale magistrati a “darsi una calmata”: «Possono esprimere il loro convincimento, ma non devono contrapporsi al governo come un soggetto politico. Altrimenti rischiano di apparire una casta che difende se stessa». Un avvertimento che trova eco tra diversi riformisti del Pd, convinti che la linea ufficiale del partito sia troppo appiattita sulle posizioni dell’Anm.
Un altro presidente di Regione, Vincenzo De Luca, ha confessato pubblicamente il suo tormento: «Molto probabilmente voterò sì», ha detto, pur riconoscendo la delicatezza del tema. E in privato avrebbe già espresso pochi dubbi sulla sua scelta. Segnali che alimentano il malumore tra i dirigenti dem e la richiesta, sempre più insistente, di una Direzione nazionale dedicata al referendum prima che la segreteria ufficializzi la posizione del partito.
Il dilemma della sinistra è profondo. Da un lato, la legittima difesa delle prerogative della magistratura e la paura che la riforma diventi uno strumento di pressione politica sull’accusa; dall’altro, la consapevolezza che l’attuale sistema, con carriere e correnti intrecciate, non garantisce più la fiducia dei cittadini. La riforma Meloni, pur con le sue ombre, tocca un nervo scoperto: la distanza tra il principio costituzionale di giustizia e la sua applicazione quotidiana.
La partita, per il Pd, è quindi doppia. C’è il rischio di un corto circuito politico, che oppone la base più identitaria a un’area riformista nostalgica dell’impianto liberal-socialista degli anni Novanta. Ma c’è anche l’occasione — se gestita con intelligenza — di aprire finalmente un dibattito di merito sulla giustizia, sottraendolo alla propaganda del governo e alle difese corporative dell’ordine giudiziario.
Alla fine, la scelta sul referendum rischia di misurare non solo la tenuta interna del partito, ma anche la sua capacità di parlare al Paese in modo credibile. Perché dietro la formula tecnica della “separazione delle carriere” si nasconde una domanda più grande: quale idea di Stato di diritto e di libertà individuale vuole difendere la sinistra italiana nel XXI secolo?
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