Anno: XXVI - Numero 156    
Venerdì 8 Agosto 2025 ore 14:40
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La richiesta di diritti, perpetua la guerra fra politica e magistratura

Il braccio di ferro è tra due diverse e complementari necessità e doveri delle democrazie: il diritto e il governo.

La richiesta di diritti, perpetua la guerra fra politica e magistratura

Oggi il vecchio equilibrio tra queste due funzioni si è rotto o si è spostato a favore del diritto, e la politica sta reagendo, ovunque. Ne deve nascere uno nuovo, e non imposto per legge.

La Meloni ha, come prevedibile, denunciato la guerra della magistratura alla politica, colpevole di toccarne le carriere. L’Anm ha accusato la politica di cambiare le carriere dei magistrati perché ritenuti colpevoli di un controllo malevolo su di essa. È una lettura nostrana semplicistica di una contesa che ha ragioni più remote e anche più nobili; e poiché spesso ad essa si indulge e forse ho dato io stesso a volte l’impressione di farlo, vorrei proporne una più precisa.

Comincio con il dire che, se guerra è, forse oggi è inevitabile, perché le forze che la provocano sono superiori alle determinazioni dei singoli, dei gruppi e delle categorie e stanno in quello che, in passato, si sarebbe chiamato spirito del tempo. I due “contendenti” rappresentano due diverse e complementari necessità e doveri delle democrazie: il diritto e il governo. A lungo questi due obblighi costitutivi sono vissuti in un certo equilibrio, ma, in realtà, quasi sempre perché il diritto si piegava alla ragion di stato (spesso per fortuna, spesso disgraziatamente) e la politica rispettava formalmente il diritto onorandone i responsabili con il prestigio e i soldi (ancora una ventina di anni fa, in Italia, i magistrati sono stati l’unica categoria esentata dal blocco degli stipendi che aveva riguardato tutto il pubblico impiego). Oggi questo vecchio equilibrio si è rotto o si è spostato a favore del diritto per più motivi.

Ne propongo due: sono enormemente aumentati lo spazio dei diritti riconosciuti e il numero dei beni tutelati, perché le moderne democrazie hanno dato rilievo fortissimo ai diritti individuali, delle minoranze, dei gruppi e alla tutela di beni un tempo non o poco protetti (pensiamo alle cause mediche o a quelle sull’ambiente o a quelle su qualsiasi concorso) e, di conseguenza, le magistrature di tutto il mondo occidentale sono state chiamate a dare ragione alle rimostranze ricevute, spesso quanto più erano socialmente deboli quelli che le facevano (vedi l’accresciuta importanza e credibilità delle vittime in giudizio). Questo ha dato all’operato delle magistrature un prestigio sociale che supera quello vecchio istituzionale e di palazzo, ne rende i membri ancor più autorevoli, importanti, a volte famosi (perfino in tv, come sta succedendo). Il successo pubblico ha indotto ad accentuare il controllo di legalità che la magistratura deve esercitare d’ufficio e ha favorito la sua applicazione ai poteri tradizionali e alle élites (medicina, industria, università, politica) che un tempo erano guardate con più indulgenza. A consolidarlo, si è aggiunto il valore di una potente ed efficace quanto dubbia equazione tra legalità e morale, con ulteriore guadagno di popolarità (meritata o no, qui non è in questione) del ruolo giudiziario in tutte le democrazie occidentali. E quindi, aumento di potere.

La politica ha reagito, sta reagendo a questo spostamento dell’asse verso i diritti un po’ ovunque. Molte democrazie hanno già avviato un (pericoloso) processo di ridimensionamento delle magistrature (vedi Polonia, Ungheria) e nelle Americhe hanno portato al successo forzuti avversari dei diritti. La vittoria di Trump grida ad alta voce e senza ritegno che la politica pretende di contare più del diritto e di essere lei a stabilire quali beni vanno tutelati (magari quelli dei più ricchi) e quali no (vedi quelli degli immigrati). Non nasconde più le sue pretese, anzi se ne vanta. Molti politici, anche se più cauti, vorrebbero fare altrettanto in tutto l’occidente, specie quando la difesa della legge contrasta o non favorisce la ragion di stato (da noi si pensi ai processi per l’acquisto di materie prime da paesi dubbi o per il trattamento dei migranti). Gli uomini del diritto pensano ovviamente l’opposto e mettono sotto accusa anche capi di stato e ministri, con iniziative sempre molto popolari, anche perché la gente pensa male dei politici per principio o schieramento. Negli stati democratici, dicono non senza ragione, la legge viene prima del potere; ma il potere, ribattono i politici, non può essere impedito dalla legge, perché anch’esso legittimato dal voto. E non hanno tutti i torti, piaccia o no.

Forze ben superiori ai contendenti locali e a modeste istanze di carriera o di organizzazione si scontrano nel confronto anche italiano tra il primato della politica e quello del diritto e la contesa non si concluderà che o, Dio non voglia, con la radicale sconfitta di uno dei due (lo stato etico o la democratura spregiudicata) o con un nuovo equilibrio, migliore del precedente ma rispettoso di entrambi i valori, frutto di una saggezza che purtroppo non si può imporre per legge.

di Vittorio Coletti. Su HuffPost

 

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