La procura di Palermo scaricò Falcone e Borsellino
Drammatica audizione in Antimafia del procuratore di Caltanissetta, Salvatore De Luca: la pista nera vale “zero spaccato”, c’entrano invece l’insabbiamento dell’inchiesta mafia-appalti e l’isolamento a opera dei colleghi. Durissime accuse a Giammanco, Pignatone, Natoli e altri
In evidenza
Tre ore di audizione per raccontare tre anni di indagini non sono state sufficienti a esaurire le domande. Davanti alla commissione parlamentare Antimafia, il procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca ha tracciato una ricostruzione che riporta al centro il clima dentro la Procura di Palermo nei mesi che precedettero le stragi di Capaci e via D’Amelio. Il cuore del suo racconto è doppio: da un lato, la pista neofascista che in passato ha sfiorato Stefano Delle Chiaie “vale zero spaccato” sul piano giudiziario; dall’altro, a pesare sarebbero stati l’isolamento e la sovraesposizione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e l’insabbiamento del dossier mafia-appalti.
De Luca parla con l’autorevolezza di chi in quegli anni era un giovane pm proprio in quel Palazzo di giustizia. La sua tesi è netta: il fascicolo mafia-appalti, redatto dai carabinieri del Ros e inizialmente archiviato, “è tra le concause” dell’uccisione di Borsellino e rileva anche per l’omicidio Falcone. Non perché quel dossier dica tutto, ma perché attorno alla sua gestione maturarono condizioni che, dentro e fuori la Procura, resero i due magistrati un bersaglio. Le “precondizioni” indicate sono l’isolamento istituzionale e la sovraesposizione, che secondo De Luca furono anche frutto di condotte “inopportune” di alcuni colleghi.
Il nome che ricorre più spesso è quello del procuratore capo dell’epoca, Pietro Giammanco, scomparso nel 2018. Su di lui il racconto è severo: relazioni personali e scelte organizzative avrebbero ostacolato l’approfondimento di mafia-appalti. De Luca ricorda i legami di Giammanco con ambienti politici democristiani, sottolinea che quelle relazioni erano note quando il Csm lo nominò nel 1990, e vede nella ripresa dell’indagine nel 1993 – dopo l’uscita di scena del capo, seguita alla rivolta dei pm – la prova che “nel ’92 non si fece quello che andava fatto”. A questa lettura si accompagnano ulteriori rilievi su Giuseppe Pignatone e Gioacchino Natoli: il primo oggi indagato per presunto favoreggiamento legato a una costola di mafia-appalti, il secondo accusato da De Luca di aver “mentito al Csm” sulle frizioni tra Giammanco e Falcone. Chiamati in causa a vario titolo da De Luca anche Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato (oggi senatore dei Cinque Stelle e componente della commissione) che indagati non sono ma ebbero un ruolo nella gestione di quel fascicolo.
Su Pignatone, De Luca punta il dito anche sul piano delle opportunità: a suo giudizio “non si sarebbe dovuto nemmeno avvicinare” a quel fascicolo, considerato che alcuni imprenditori coinvolti – Bonura, Buscemi e Piazza – erano titolari della società immobiliare da cui la famiglia del magistrato aveva acquistato appartamenti “a prezzi di favore”. Pignatone ha fornito spiegazioni difensive, ma per De Luca le ombre restano. Quanto a Natoli, l’episodio richiamato come “massimo atto di sfiducia” riguarda Paolo Borsellino e il pentito Gaspare Mutolo: quando quest’ultimo riferì, fuori verbale, sospetti su collusioni dell’allora pm Domenico Signorino e del dirigente di polizia Bruno Contrada, Borsellino non si rivolse ai co-titolari dell’indagine, Natoli e Guido Lo Forte, ma ad altri due magistrati. Una scelta che per De Luca segna la distanza dalla dirigenza della Procura.
Il racconto non si esaurisce nei nomi. L’elemento più delicato è l’effetto sistemico che avrebbe prodotto, secondo De Luca, il “chiacchiericcio” dentro Cosa Nostra: l’idea che alcuni magistrati fossero percepiti come “malleabili” o avvicinabili, contrapposti alla intransigenza di Falcone e Borsellino. Se quel chiacchiericcio ebbe peso, l’esito potrebbe essere stato un ragionamento criminale brutale: “Eliminiamo questi e con gli altri non avremo problemi”. È un passaggio che chiama in causa la responsabilità collettiva dell’istituzione e misura il livello di vulnerabilità in cui furono lasciati i due giudici.
Tutto (o quasi) ciò che la maggioranza di centrodestra voleva sentirsi dire è stato detto, e non è un caso che a fine seduta i commissari di Fratelli d’Italia e Forza Italia esultino per la versione di De Luca, il quale ha pure annunciato che la “pista nera” con cui s’immaginava il coinvolgimento nelle stragi dell’ex leader di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie sul piano giudiziario “vale zero spaccato”. Ne resta un’altra, sempre in ambito neofascista, ma non se ne può parlare perché i pm la stanno ancora battendo.
Dopodiché, il principale indizio che Borsellino non si fidava di Natoli e Lo Forte sta nel fatto che quando il pentito Gaspare Mutolo gli parlò, fuori verbale, delle collusioni con la mafia dell’allora pm Domenico Signorino e del super poliziotto Bruno Contrada, lui non lo riferì a loro che erano co-titolari dell’indagine, bensì ad altri due magistrati. “Questo è il massimo atto di sfiducia che Borsellino potesse fare verso Natoli e la dirigenza della Procura”, scandisce il procuratore.
Altre Notizie della sezione
“Sull’AI rischiamo di restare indietro ancora una volta”
09 Dicembre 2025Il discorso di Christine Lagarde al forum Ocse di Bratislava.
Edilizia, via libera alla riforma: ok del Cdm al nuovo codice
06 Dicembre 2025Cosa prevedono i cinque articoli presenti nella bozza del testo.
Garlasco, depositata la perizia.
04 Dicembre 2025Gli elementi a carico di Sempio secondo la Procura il dna sulle unghie compatibile con quello di Sempio.
