Gaza, la pace impossibile del piano Trump
Dopo il cessate il fuoco e lo scambio di prigionieri, il piano Trump per Gaza entra nella fase più fragile: disarmo di Hamas, ritiro israeliano e nuova governance internazionale.
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Ma dietro la tregua si celano nodi politici irrisolti: la sfiducia tra le parti, il rifiuto israeliano di uno Stato palestinese e il rischio che la smilitarizzazione si trasformi in resa. Senza garanzie vere, la pace resta un miraggio.
La tregua appena raggiunta tra Israele e Hamas è solo la superficie di una tempesta profonda. Il piano di pace di Donald Trump, rispolverato e adattato a una nuova fase del conflitto, promette di trasformare Gaza in un laboratorio di sicurezza e ricostruzione sotto controllo internazionale. Ma ogni passo successivo appare disseminato di trappole.
Il disarmo di Hamas è la più esplosiva: un punto che Israele interpreta come resa totale, mentre i palestinesi lo vedono come condizione politica impossibile senza un vero impegno verso la fine dell’occupazione. Lo stesso ritiro israeliano è previsto solo in parte, con una “zona cuscinetto” che sottrarrebbe a Gaza quasi un quinto del territorio.
Poi c’è la governance: un “Consiglio di Pace” guidato da Trump e Tony Blair, destinato a gestire tutto, dai fondi alla sicurezza. Una struttura che rischia di sostituirsi alla legittimità palestinese, marginalizzando sia Hamas sia l’Autorità Nazionale Palestinese. Senza un chiaro collegamento con la Cisgiordania, Gaza potrebbe diventare un protettorato più che una rinascita.
Gli analisti europei sono chiari: senza un cambiamento di rotta israeliano, senza pressioni vere da Washington, e senza garanzie di sovranità per i palestinesi, il piano non potrà reggere. Resterà un esercizio di diplomazia spettacolare, utile forse a fermare le armi, ma non a costruire la pace.
Il rischio è che questa tregua sia solo l’intervallo tra due guerre.
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