Pronto Soccorso, il luogo dove la dignità resta in attesa
Tra flebo e barelle, il diritto alla cura si fa sempre più fragile.
In un Paese che si definisce civile, dove la sanità dovrebbe essere un pilastro costituzionale, i Pronto Soccorso italiani stanno diventando sempre più spesso il teatro di un dramma quotidiano. Una realtà fatta di attese estenuanti, corridoi sovraffollati, pazienti lasciati per ore – o giorni – su barelle scomode, ammassati gli uni sugli altri, senza privacy, senza dignità. Senza voce.
Ma dietro ogni numero, ogni statistica, ogni codice colore, ci sono volti. Ci sono storie.
C’è la signora Maria, ottantadue anni, che ha cresciuto tre figli, che ha lavorato una vita intera, e che ora giace su una barella da trentasei ore in un corridoio. Sente freddo, ma la coperta è sottile. Vorrebbe andare in bagno, ma non può alzarsi. Chiama, ma nessuno viene. Non per cattiveria. Semplicemente perché non c’è nessuno.
Gli infermieri corrono da un lato all’altro con gli occhi cerchiati dalla stanchezza, i medici rispondono a tre emergenze contemporaneamente. Maria stringe tra le mani il rosario che sua madre le ha lasciato e si chiede se suo figlio arriverà in tempo. In tempo per cosa, non osa pensarlo.
C’è il signor Giuliano, settantacinque anni, ex operaio, che ha sempre pagato le tasse, che ha sempre creduto nello Stato. Ora è lì, con un dolore al petto che non passa, circondato da gemiti e da un vociare confuso. Vorrebbe solo che qualcuno lo guardasse negli occhi e gli dicesse: “Stiamo facendo tutto il possibile”. Ma gli sguardi scivolano via, affrettati, verso la prossima urgenza, il prossimo allarme. Lui resta lì, aggrappato alla speranza che il suo cuore resista ancora un po’.
Ci sono giovani madri con bambini febbricitanti in braccio, che aspettano ore con una ninna nanna sempre più stanca sulle labbra. Ci sono anziani soli, che non hanno più nessuno ad aspettarli a casa, e che forse sperano, segretamente, che qualcuno in quel Pronto Soccorso sovraffollato li veda davvero, li riconosca come persone e non come “il codice verde della barella 7”.
Si parla di medicina d’urgenza, ma l’urgenza viene diluita nell’impossibilità di far fronte a un afflusso continuo di persone, spesso anziane, fragili, croniche. A fronteggiarlo, pochi medici, infermieri stremati – eroi silenziosi che si trascinano da un turno all’altro trattenendo lacrime e frustrazione – strutture insufficienti, risorse logistiche e umane che non reggono più. Il risultato è che a morire, a volte, non è solo la salute: è anche la fiducia, la speranza, il rispetto per la persona.
E muore anche qualcosa dentro chi assiste, impotente. Quell’infermiera che vorrebbe fermarsi, stringere la mano a un paziente che piange in silenzio, ma non può, perché ce ne sono altri dieci che la chiamano. Quel giovane medico che è entrato in corsia con la vocazione di salvare vite e che ora si ritrova a fare triage esistenziale: chi merita di più la mia attenzione? Chi può aspettare ancora? Chi rischia di non farcela se non intervengo adesso?
Ci sono pazienti che non riescono neppure a ricevere una parola di conforto. Che muoiono in un angolo, dietro un paravento improvvisato, con accanto una flebo e nessuno a stringere loro la mano. Nessuno a sussurrare: “Non sei solo”. Muoiono ascoltando il rumore delle suonerie dei telefoni, il suono metallico delle barelle che si muovono, le voci affannate del personale. Muoiono senza un addio, senza uno sguardo umano che li accompagni oltre la soglia.
Questo accade oggi, in Italia. In silenzio, mentre ci si abitua all’inaccettabile.
Ci siamo assuefatti. Abbiamo smesso di indignarci. Abbiamo normalizzato l’orrore quotidiano di una sanità al collasso, raccontandoci che “è sempre stato così”, che “i medici fanno quello che possono”, che “non ci sono i soldi”. Tutte verità. Ma verità che non possono diventare alibi per voltare lo sguardo.
Perché ogni volta che permettiamo che un essere umano muoia senza dignità in un corridoio, stiamo rinunciando a un pezzo della nostra umanità. Ogni volta che lasciamo che un anziano passi la notte su una sedia di plastica, in attesa di un posto letto che non arriverà, stiamo tradendo il patto sociale su cui si fonda una democrazia: prendersi cura dei più fragili, garantire diritti fondamentali, onorare la vita.
Non possiamo più permetterci il silenzio. Non possiamo più girare la testa dall’altra parte. Perché domani, o dopodomani, potremmo esserci noi su quella barella. Potrebbe esserci nostro padre, nostra madre, nostro figlio. E allora ci accorgeremo che quello che abbiamo lasciato morire non è stata solo la sanità pubblica. È stata la nostra capacità di essere davvero civili.
Cosa siamo disposti a tollerare ancora? La sanità non è un capitolo di bilancio. È la misura della nostra civiltà. Della nostra umanità!
Di Nicoletta Cocco (Direttore responsabile insalutenews.it)
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