Lo scontro cercato
C’è un momento in cui la politica smette di cercare il confronto e comincia a cercare lo scontro.Quando non basta più governare: bisogna dividere, polarizzare, identificare un nemico.
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Il nemico oggi, per Giorgia Meloni, ha il volto della magistratura e il sostegno — mai esplicitato, ma insinuato — di un’opposizione incapace, a suo dire, di battere il governo alle urne e dunque tentata dalla scorciatoia giudiziaria.
Le parole pronunciate e scritte dalla premier in questi ultimi tre giorni non sono uno scivolone, né uno sfogo. Sono atti politici lucidi, pesati e parte di una strategia che si va delineando con precisione. Un crescendo comunicativo partito da un post su X, passato da un’intervista televisiva priva di contraddittorio, e culminato in un attacco frontale su Facebook a esponenti della sinistra italiana accusati addirittura di voler “processare” l’Italia presso la Corte Penale Internazionale.
Il messaggio è chiaro: chi critica il governo, chi ne contesta le scelte, chi esercita il controllo di legalità, è un sabotatore del mandato popolare. Una tesi pericolosa, perché mina alla base l’architettura costituzionale dei pesi e contrappesi che regge la nostra democrazia.
Meloni non è nuova a questo tipo di retorica, ma ora il livello dello scontro è salito di grado. E non è un caso che tutto questo avvenga mentre in Parlamento avanza la riforma della giustizia firmata Nordio, a cominciare dalla separazione delle carriere tra giudici e pm. Una riforma che merita un dibattito serio, non un clima da campagna elettorale permanente in cui chi non si allinea diventa un nemico dello Stato.
Accusare la magistratura di complotti, evocare fantasmi di golpe togati, è un gioco retorico che l’Italia ha già conosciuto negli anni ’90. Ma allora il contesto era diverso, e oggi certe affermazioni risultano ancora più gravi perché arrivano da chi siede al vertice dell’esecutivo. Che proprio per questo dovrebbe pesare ogni parola, sapendo che da quelle parole discende anche il rispetto — o lo sfregio — verso le istituzioni.
Non si tratta di difendere una casta, come qualcuno vorrà ridurre la questione. Si tratta di difendere un principio: che in una democrazia liberale il potere giudiziario ha il dovere di agire in autonomia, anche e soprattutto quando chi è indagato o sotto processo è un ministro, un sottosegretario, un politico. Lo Stato di diritto o vale per tutti, o non vale per nessuno.
Dietro la scelta della premier si intravede, con chiarezza, il disegno di un referendum che sarà il prossimo banco di prova del governo. La “madre di tutte le battaglie”, come l’ha definita lei stessa: la separazione delle carriere. Ma un confronto così serio meriterebbe toni istituzionali, non la caricatura del nemico interno.
Il rischio vero, oggi, non è solo quello di una tensione politica. È quello di una frattura democratica. Alimentare il sospetto che la giustizia sia solo un’arma della sinistra, insinuare che chi contesta lo faccia per vie oscure e non per via parlamentare, è un veleno sottile che penetra nel tessuto civile. E che, alla lunga, logora la fiducia dei cittadini nello Stato.
Una premier forte non ha bisogno di vittimismi né di nemici immaginari. Ha bisogno di governare, spiegare, costruire. Non di combattere ogni giorno una guerra che rischia di lasciare macerie istituzionali dietro di sé.
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