Il centrodestra governa, il centrosinistra si divide
Mentre Meloni consolida la sua leadership con pragmatismo e disciplina, il Pd e il M5s inseguono un’alleanza fragile, senza un vero programma e con Conte pronto a dettare le condizioni.
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Per capire perché il centrodestra governi e il centrosinistra no, non servono teorie raffinate o grandi manuali di scienza politica. Basta guardare ai fatti. A destra vige un patto semplice e solido: si concorda un programma minimo, si vota compatti e si accetta la leadership di chi ha più consenso. I nodi divisivi vengono rimandati o lasciati sullo sfondo, senza diventare trappole interne. È un approccio pragmatico, quasi aziendale: risultati prima delle ideologie.
A sinistra, invece, lo schema si capovolge. L’unico vero collante è l’opposizione alla destra: la demonizzazione di Meloni e il mito eterno dell’antifascismo. Per il resto, il fronte progressista appare come un mosaico incoerente. Slogan come salario minimo, sanità pubblica e gestione dell’immigrazione funzionano per galvanizzare la base, ma non bastano a costruire un progetto organico di governo.
C’è poi la questione della leadership, il vero tallone d’Achille. Nel centrodestra il capo non si discute fino alle elezioni: oggi è Meloni, ieri Berlusconi. Nel centrosinistra, al contrario, il “tiro al leader” è sport nazionale. Basta scorrere la galleria dei presidenti del Consiglio della Seconda Repubblica: una sequenza di avvicendamenti, con congiure di palazzo e regolamenti di conti interni. Neppure le primarie sono riuscite a stabilizzare la guida. Elly Schlein, attuale segretaria, resta al suo posto soprattutto per una ragione: è testardamente unitaria e dunque funzionale all’unico obiettivo realistico del PD, quello di non rompere con il Movimento 5 Stelle.
Già, il M5S. Qui sta il nodo strategico. Il Partito Democratico sa benissimo di non poter vincere da solo: quel 13-15% dei grillini è indispensabile. Senza, la destra avrebbe strada libera per un’altra legislatura. Per questo il Pd è disposto a qualsiasi concessione pur di tenere in piedi il “campo largo”. Ma Conte conosce la sua forza e presenta un conto salatissimo: il ritorno al reddito di cittadinanza, bonus e misure assistenzialiste, una politica estera meno atlantica e più ambigua, collegi uninominali cuciti su misura e, soprattutto, la pretesa che a Palazzo Chigi ci vada “l’Avvocato del Popolo”.
Il risultato è un’alleanza fragile, senza visione comune, che rischia di trasformarsi in un’armata Brancaleone. Una coalizione che non si riconosce in valori condivisi, ma solo nel “tutti contro Meloni”. E questo, in politica, non basta. Lo si è già visto: anche se il centrosinistra riuscisse a strappare una vittoria elettorale, basterebbe una crisi internazionale, una guerra o persino la questione di un termovalorizzatore per far esplodere le contraddizioni interne e riportare il Paese al voto.
Il Pd, d’altra parte, soffre di astinenza da potere. Dal 2011 è stato quasi sempre nei palazzi, pur senza vincere le elezioni. Ora che Meloni guida un governo stabile, i vecchi trucchi – governi tecnici, di unità nazionale, formule emergenziali – non sembrano più praticabili. L’unica strada è battere la destra sul suo stesso terreno: le urne. Ma senza un progetto chiaro e senza una leadership riconosciuta, la prospettiva resta lontana.
Qui si inserisce la vecchia guardia, con Dario Franceschini in prima linea. Un dinosauro della politica che non accetta di farsi da parte e che sogna una rivincita su Elly Schlein. Dopo averla issata alla segreteria, la accusa ora di averlo tradito e le manda un messaggio chiaro: scordati la leadership per le politiche del 2027, sarà la coalizione a scegliere il candidato premier con le primarie. Franceschini punta a un’operazione centrista: una lista moderata capace di portare in dote quei voti indispensabili per superare la destra. Ma proprio questa idea rischia di indebolire il PD, rubando consensi a Schlein più che a Meloni.
E non manca un avvertimento: “nella fase finale della legislatura, se capiranno che vanno verso la sconfitta, potrebbero diventare pericolosi. dobbiamo attrezzarci con la mobilitazione. speriamo che non serva…”. Parole che sanno di resa preventiva e di nostalgia per i vecchi schemi di palazzo.
Il bipolarismo, però, non lascia più spazio a manovre di corridoio. Gli elettori chiedono stabilità, coerenza, leadership forte. Il centrodestra questo lo ha capito. Il centrosinistra, per ora, no.
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