C’era una volta il Veneto, la terra promessa della Lega.
Oggi è diventato un ostaggio, un gettone da poker nella partita tutta romana del centrodestra.

Il copione è presto detto. Salvini vuole presentarsi a Pontida, il suo raduno annuale, con un nome da sventolare come bandiera: Alberto Stefani, giovane leghista da proporre come candidato governatore. La scena che immagina è epica: il popolo in camicia verde che applaude, il leader che alza il vessillo, la vittoria già scritta. Peccato che Giorgia Meloni abbia deciso di scrivere la sceneggiatura a modo suo.
Per lei il Veneto è un premio di consolazione da usare se le Marche dovessero sfuggirle di mano. Lì corre Francesco Acquaroli, governatore uscente di Fratelli d’Italia, tallonato dal candidato del centrosinistra Matteo Ricci. I sondaggi ballano come tarantelle: mezzo punto avanti uno, due punti avanti l’altro, nessuno in grado di dormire sonni tranquilli. Se Acquaroli vince, Meloni potrà dire di aver blindato almeno una regione e, da padrona di casa, concedere il Veneto alla Lega. Se perde, arrivederci e grazie: Venezia sarà campo dei Fratelli, altro che feudo padano.
Il bello è che Salvini ci crede davvero, e continua a invocare la “fretta”. «È il 10 settembre, bisogna decidere!» ripete come un mantra. Ma a Palazzo Chigi la risposta è un’alzata di sopracciglio. La premier ha ben altri pensieri: tra droni russi in Polonia e impegni di politica estera, trova il tempo di partecipare mezz’ora a un vertice, salutare Tajani e Lupi, dare un buffetto a Calderoli e poi congedarsi con un elegante “permesso”. Più che un vertice di coalizione, un tè delle cinque con uscita di scena strategica.
Risultato: Salvini a Pontida ci andrà a mani mezze vuote. Potrà sventolare qualche accordicchio sull’autonomia differenziata, presentato come traguardo storico ma ridotto nei fatti a contentino burocratico. Il trofeo veneto, quello no: resta in frigo fino al 28 settembre, quando parleranno le urne marchigiane.
La verità è che nel centrodestra la musica la dirige Meloni. E Salvini balla, che gli piaccia o meno. Ogni settimana di attesa è un colpo alla sua immagine, ogni rinvio una dimostrazione plastica di chi comanda davvero. Lui prova a mascherare l’imbarazzo con dichiarazioni roboanti, ma il film è chiaro: la Lega non detta più legge, semmai prende appunti.
E così il Veneto resta sospeso, come il premio più ambito di una riffa parrocchiale. I militanti fremono, i dirigenti mugugnano, ma la premier sorride e tira dritto. In politica – lo si dimentica spesso – non vince chi urla più forte, ma chi sa aspettare. E in questo, Giorgia Meloni ha appena dato a Salvini una lezione di pazienza… ridendo sotto i baffi.
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