Anno: XXVI - Numero 203    
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Dalla bolla dei subprime al rischio Private Credit

Dopo i mutui subprime, un nuovo pericolo si affaccia sui mercati: la crescita opaca e incontrollata del private credit minaccia di trasformarsi nella prossima crisi finanziaria, mentre fondi pensione e casse di previdenza espongono risparmi previdenziali a rischi non compatibili con la loro missione.

Dalla bolla dei subprime al rischio Private Credit

“La crisi finanziaria dei mutui subprime ha avuto inizio negli Stati Uniti nel 2006. I presupposti della crisi risalgono al 2003, quando cominciò ad aumentare in modo significativo l’erogazione di mutui ad alto rischio, ossia a clienti che in condizioni normali non avrebbero ottenuto credito poiché non sarebbero stati in grado di fornire sufficienti garanzie. I fattori che hanno stimolato la crescita dei mutui subprime sono riconducibili, tra l’altro, alle dinamiche del mercato immobiliare statunitense e allo sviluppo delle cartolarizzazioni.

La bolla immobiliare

A partire dal 2000 e fino alla metà del 2006, negli Stati Uniti i prezzi delle abitazioni sono cresciuti in maniera costante e significativa, generando una vera e propria bolla immobiliare. Tale dinamica era favorita dalla politica monetaria accomodante della Federal Reserve (FED), che mantenne i tassi di interesse su valori storicamente bassi fino al 2004, in risposta alla crisi della bolla internet e all’attacco dell’11 settembre 2001.

La politica monetaria

Tassi di interesse bassi equivalevano a un basso costo del denaro per i prenditori dei fondi, ossia per le famiglie che richiedevano mutui ipotecari, e finirono pertanto con lo stimolare la domanda di abitazioni alimentandone ulteriormente i relativi prezzi. La bolla immobiliare, inoltre, rendeva conveniente la concessione di mutui da parte delle istituzioni finanziarie che, in caso di insolvenza del mutuatario, potevano comunque recuperare il denaro prestato attraverso il pignoramento e la rivendita dell’abitazione.

La cartolarizzazione

Oltre alla bolla immobiliare e ai bassi tassi di interesse, la crescita dei mutui subprime è stata sostenuta anche dallo sviluppo delle operazioni di cartolarizzazione, ossia dalla possibilità per gli istituti creditizi di trasferire i mutui, dopo averli ‘trasformati’ in un titolo, a soggetti terzi (le cosiddette “società veicolo”) e di recuperare immediatamente buona parte del credito che altrimenti avrebbero riscosso solo al termine dei mutui stessi (10, 20 o 30 anni dopo). La cartolarizzazione consentiva alle banche, apparentemente, di liberarsi del rischio di insolvenza dei prenditori dei fondi e indeboliva così l’incentivo a valutare correttamente l’affidabilità dei clienti. Le società veicolo, dal canto loro, finanziavano l’acquisto dei mutui cartolarizzati mediante l’offerta agli investitori di titoli a breve termine”. (Fonte: Consob).

Quel che accaduto è noto a tutti con la crisi finanziaria mondiale.

Oggi si profila all’orizzonte un’altra fonte di instabilità finanziaria collegata allo sviluppo del private credit.

L’idea che nel private credit si stia gonfiando una bolla appare sempre più plausibile. Il settore, che ha superato i 2.500 miliardi di dollari, si muove lontano dai mercati regolamentati e sfugge in gran parte alla vigilanza tradizionale. Nato per sostenere le imprese escluse dal credito bancario, è diventato un circuito parallelo di finanziamento capace di amplificare gli shock dell’intero sistema.

Come spiega La Stampa nella sua edizione del 13 ottobre 2025, per struttura e dinamiche ricorda da vicino i mutui subprime prima del 2007: crescita esplosiva, segnali di rischio poco trasparenti, forti legami con le banche e la convinzione che la dispersione dei rischi basti a renderli innocui. Oggi, però, le dimensioni sono maggiori e la visibilità minore.

Negli Stati Uniti torna un fantasma che si pensava esorcizzato da tempo: quello dei prestiti subprime. A riportarlo sulla scena è il caso Tricorn Holdings, una finanziaria texana specializzata in crediti per l’acquisto di auto usate, crollata sotto il peso di frodi contabili che un tribunale ha definito «potenzialmente sistemiche». Il danno stimato supera i 12 miliardi di dollari. Ma il vero problema non è la cifra: è il meccanismo.

Secondo quanto si legge su Il Corriere della Sera – Tricorn concedeva prestiti ad alto rischio a clienti con scarsa solvibilità, li impacchettava in strumenti finanziari e li rivendeva a investitori alla ricerca di rendimenti facili. È la stessa logica che, nel 2008, fece esplodere la bolla dei mutui subprime. Solo che oggi la scena non è quella dei quartieri residenziali, ma dei parcheggi delle concessionarie.

«Alla consueta relazione con istituti di credito e investitori internazionali, si è affiancata quella con nuovi attori specializzati e con le sgr italiane, che hanno avviato fondi di private lending», spiega Luca Cosentino, partner del team Financial Services di Ey-Parthenon. «Nello sviluppo dei fondi e nell’attività di fund raising, un ruolo molto importante è stato svolto poi dagli operatori pubblici, che hanno contribuito in maniera rilevante alla crescita del mercato italiano e, più recentemente, anche alcune casse previdenziali hanno sottoscritto quote di fondi di private lending in fase di avvio, chiaramente privilegiando tipologie di crediti consoni al loro profilo di rischio». Lo confermano i numeri perché l’anno scorso 16 fondi pensione hanno destinato 1,04 miliardi ai private market, per il 22% indirizzati al private credit.

Questo il quadro offerto dalla stampa specializzata.

Vediamo ora che cosa è questo asset chiamato “private credit”.

EYItalia nel luglio 2025 ha pubblicato un report che ho letto e del quale riproduco qui l’Executive summary:

“Nell’ultimo decennio, il Private Credit si è affermato come una delle asset class alternative di maggiore successo a livello globale, con masse in gestione pari a quasi $2,0tn nel 2024, attese a circa $3,0tn entro il 2028.

Sebbene soluzioni di accesso al credito alternative al canale bancario fossero note già dagli anni ’90 negli USA – grazie all’opera pioneristica di fondi come Apollo Global, Oaktree e Blackstone e all’istituzione di veicoli denominati Business Development Companies (BDC) – il vero successo dell’asset class su scala globale si è verificato a valle della Global Financial Crisis del 2008, per colmare il “funding gap” derivante dal parziale lending retrenchment delle banche tradizionali, a cui il Private Credit ha risposto offrendo soluzioni di finanziamento flessibili, rapide e personalizzabili.

A livello internazionale, l’asset class ha mostrato un’espansione costante, favorita dalla capacità di navigare attraverso contesti macroeconomici mutevoli: dalla stagione di tassi bassi nel decennio post-crisi, fino al più recente scenario di politica monetaria restrittiva e tensioni geopolitiche. La struttura a tasso variabile degli strumenti, unita alla solidità contrattuale con downside-risk protection (il Downside Risk è una misura di rischio simile alla deviazione standard che si concentra sulla parte negativa della volatilità dell’investimento) e la bassa correlazione con i mercati pubblici hanno reso l’asset class particolarmente attrattiva, da un punto di vista di risk-adjusted return, anche per investitori istituzionali e assicurativi in cerca di rendimento e diversificazione.

Nel tempo, il Private Credit ha esteso il proprio raggio d’azione in ottica di diversificazione: oltre al tradizionale focus su creditori del segmento middle-market – in forte sinergia con il Private Equity – oggi finanzia anche operazioni di grandi dimensioni e include un’ampia varietà di strutture asset-based. Le strategie di investimento si sono evolute, andando oltre i tipici mini-bond e il direct lending – ad esempio grazie a soluzioni più complesse di hybrid capital – così come i modelli di collaborazione con le banche, attraverso strutture di co-investimento, loan-on-loan (o back leverage), trasferimento del rischio (SRT) o altre partnership.

Non mancano tuttavia alcuni rischi legati al crescente livello di leva e interconnessione con il sistema bancario, la concentrazione dei portafogli, come anche il maggiore coinvolgimento di investitori retail, che pone sfide sia sul piano della liquidità (intesa come duration mismatch), sia sul mantenimento di rendimenti elevati, storicamente garantiti proprio grazie al profilo di illiquidità dell’investimento.

In Italia, il mercato del Private Credit – seppur ancora non maturo come nei contesti anglosassoni – ha recentemente registrato un forte sviluppo, specialmente a valle del Covid19, con livelli annui di raccolta che sono cresciuti da €551m nel 2020 a circa €1,4mld nel 2024 (c.25% CAGR).

Il successo dell’asset class nel nostro paese è legato anche ad una combinazione favorevole di fattori strutturali. Infatti, storicamente, le imprese italiane hanno leva finanziaria elevata e, al contempo, un approccio bancocentrico. Questa caratteristica, al momento della stretta creditizia bancaria, ha fatto sì che l’opportunità per l’offerta di soluzioni alternative di finanziamento fosse forte, motivando l’intervento del regolatore nel disciplinarle. A ciò si è aggiunto un ruolo abilitante del settore pubblico, con crescenti investimenti da parte di istituzionali domestici.

Da un punto di vista di operatori, il contesto competitivo si distingue per la presenza di fondi italiani specializzati di recente costituzione, affiancati da grandi asset manager internazionali con ampi track record, attivi solitamente in operazioni di maggiori dimensioni.

Le partnership con le banche in ottica di “coopetition” – fattispecie in forte sviluppo all’estero in mercati più maturi – mostrano buoni segnali anche in Italia, ma risultano ancora in fase embrionale. In particolare, si stanno affermando modelli in cui le banche, oltre a investire direttamente in fondi di Private Credit o costituirne di propri, operano come intermediari tra fondi e clientela corporate, assumendo un ruolo attivo nelle fasi di origination e di distribuzione. Questo modello di business consente, da un lato, di mantenere un ruolo centrale nella relazione con le imprese, affidando l’execution ad asset manager esperti e con competenze verticali, dall’altro, di alleggerire il profilo di rischio e l’impatto sul proprio bilancio, in ottica “capital-light”.

Nello scenario futuro, caratterizzato da nuove incertezze geopolitiche e tassi d’interesse attesi “higher-for-longer”, riteniamo che l’asset class possa comunque proseguire lungo una nuova fase di sviluppo.

Sul piano della raccolta, gli investitori guarderanno sempre più con favore verso asset manager affermati, con rigorose politiche di sottoscrizione e approcci disciplinati al monitoraggio e gestione dei rischi di portafoglio. La partecipazione di istituzionali e assicurazioni è attesa ulteriormente in crescita al fine di raggiungere i target di asset allocation nel settore, mentre sul fronte retail vediamo sempre maggiore coinvolgimento di wealth manager verso investitori affluent, anche grazie al trend crescente di costituzione di veicoli aperti in ottica evergreen.

Sul piano degli impieghi, la prospettata ripresa del dealflow nel Private Equity – dove si osservano elevati livelli di dry powder – potrà tornare a costituire un importante driver di crescita per il Private Credit, sia nel finanziare le operazioni primarie, sia nel sostenere la crescita e gli investimenti trasformativi delle portfolio companies. In parallelo, la diversificazione verso nuove asset class potrà proseguire grazie ad operazioni asset-backed e un atteso aumento nel segmento Real Estate.” (Fonte: Private Credit: opportunità per lo sviluppo del mercato in Italia, EY Point of View, luglio 2025).

Richiesta di un parere la IA dice: “Sì, nel private credit manca la trasparenza perché i prestiti sono spesso non classificati e opachi, a differenza dei titoli pubblici, e gli investitori si affidano a valutazioni interne anziché a rating ufficiali. Questa minore trasparenza rende difficile per gli investitori valutare appieno le condizioni finanziarie delle aziende e delle opportunità di investimento, creando un divario informativo. Nonostante questo, il private credit è un mercato in forte crescita, con un patrimonio gestito globalmente che supera i 9 trilioni di dollari.

Una ragione in più per potenziare le competenze sia nei Fondi pensione che nelle Casse di previdenza perché non maneggiano denaro qualsiasi ma provvista che si forma attraverso contribuzione previdenziale volontaria, quanto ai primi, e obbligatoria, quante alle Casse.

Per non ritrovarsi nella bolla.

Blackrock scrive:

“Capitale a rischio.

Il valore degli investimenti e il reddito da essi derivante possono aumentare o diminuire e non sono garantiti. L’investitore potrebbe non recuperare l’importo originariamente investito”.

Ribadisco che il private credit a me sembra incompatibile con la funzione svolta dalle Casse di Previdenza che è quella, ex art. 38 Cost, di garantire pensioni alla maturazione dei requisiti di legge.”

“Le principali criticità del private credit includono bassa liquidità e lunga durata degli investimenti, rischi elevati dovuti all’investimento in debito di società non-investment grade e all’uso di leva finanziaria, commissioni elevate che possono incidere significativamente sui rendimenti netti, e minore regolamentazione rispetto ad altri veicoli d’investimento. Inoltre, sono necessari un capitale minimo spesso elevato e una comprensione profonda dei rischi per gli investitori, specialmente i meno esperti.” (da IA).

“Il terreno sotto i mercati finanziari è sempre più instabile. Questa è la diagnosi netta e allarmante che emerge dall’ultimo Global Financial Stability Report (GFSR) del Fondo Monetario Internazionale (Fmi). Nonostante un’apparente calma, con prezzi degli asset rischiosi elevati e condizioni finanziarie più morbide rispetto ai mesi passati, si cela un sistema globale nelle mani di fragilità sostanziali e crescenti. Tobias Adrian, capo del dipartimento dei mercati finanziari del Fmi, avverte: “La crescita degli intermediari non bancari sta rivelando nuovi rischi di stabilità finanziaria che possono rapidamente travolgere il sistema bancario tradizionale”. Una frase che sintetizza il cuore di un pericolo che attraversa mercati e istituzioni nei quali realtà un tempo marginali sono divenute protagoniste dell’equilibrio finanziario globale.” (Fabrizio Goria su La Stampa, 14 ottobre 2025).

Il 7 agosto scorso il Presidente Trump ha firmato un ordine esecutivo per spingere verso i private market i Fondi 401k che equivalgono alla nostra previdenza complementare, ma ci si domanda se questo nasca da una reale esigenza dei risparmiatori o dall’interesse dell’industria finanziaria a vendere prodotti con margini più generosi?

Secondo il Wall Street Journal, la risposta è chiara almeno su un punto: “I gestori di fondi dei mercati privati hanno fatto lobbying verso l’amministrazione Trump per facilitare l’inclusione dei loro prodotti nei fondi previdenziali”.

Se e quanto questo andrà a beneficio dei risparmiatori è, invece, tutto da dimostrare.

Vogliamo aprire gli occhi prima che sia troppo tardi?

 

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