Il velo ipocrita sul terrorismo
Ong, politica e silenzi: chi ha chiuso gli occhi?
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C’è una parola che la politica italiana usa solo quando fa comodo: responsabilità. Tutto il resto è rumore, posa, indignazione a corrente alternata. In attesa che qualche giudice amico come quello di Torino, liberi i terroristi con tante scuse. E quando emergono indagini che parlano di fondi partiti dall’Europa e finiti nella galassia di Hamas, quel rumore diventa improvvisamente silenzio. Un silenzio denso, imbarazzato, colpevole.
Perché il punto non è – o non è solo – chi verrà condannato in tribunale. Il punto è il contesto politico, culturale e ideologico che per anni ha reso possibile una gigantesca rimozione: Hamas non è un incidente della storia, non è una “deviazione” della causa palestinese, non è un attore ambiguo da maneggiare con prudenza lessicale. Hamas è un’organizzazione terroristica, un regime autoritario, una macchina di guerra che vive di conflitto permanente e prospera sul sangue dei civili, palestinesi e israeliani.
Eppure, per anni, attorno a Hamas si è costruita una zona grigia. Ong presentate come intoccabili per definizione. Attivisti trasformati in icone morali. “Architetti”, “mediatori”, “umanitari” accolti nei salotti politici, fotografati, legittimati, difesi a prescindere. Chiunque osasse sollevare dubbi veniva liquidato come “filo-sionista”, “reazionario”, “nemico della pace”. Il metodo è sempre lo stesso: delegittimare la domanda per non rispondere nel merito.
Ora le domande tornano, e sono più pesanti di prima.
Attraverso quali canali sono transitati i soldi?
Chi ha garantito coperture, relazioni, accessi?
Chi ha confuso – volontariamente – l’aiuto umanitario con la propaganda politica?
E soprattutto: chi sapeva e ha fatto finta di non sapere?
Non è un mistero che a Gaza nulla si muova senza il controllo di Hamas. Non lo è per l’ONU, non lo è per l’Unione Europea, non lo è per le intelligence occidentali. Fingere sorpresa oggi significa ammettere o una colossale incompetenza o una colpevole ipocrisia. Perché se mandi soldi, beni o legittimazione in un territorio governato da un’organizzazione terroristica, il rischio di alimentarla non è un effetto collaterale: è un dato di partenza.
La sinistra italiana – una parte consistente, rumorosa, ideologicamente rigida – ha costruito negli anni un propalismo identitario, più emotivo che razionale, più militante che critico. Israele come colpevole ontologico, i palestinesi come vittime per definizione, Hamas come soggetto da non nominare o da relativizzare. Il 7 ottobre ha fatto saltare questa narrazione. Ma invece di un esame di coscienza, è partita la rimozione: minimizzare, contestualizzare, giustificare l’ingiustificabile. Chiamare “autodifesa” un pogrom. Mettere sullo stesso piano carnefici e vittime.
Qui non siamo più nel campo dell’errore di analisi. Siamo nel campo della responsabilità morale e politica. Perché le parole contano. Le legittimazioni contano. Le foto, gli inviti, le difese a oltranza contano. Creano un clima. Costruiscono ponti. Aprono porte. E a volte, quei ponti vengono percorsi anche dal denaro.
Nessuno chiede processi sommari. Ma nemmeno accettiamo l’alibi eterno del garantismo usato come scudo selettivo. Il garantismo non è amnesia. Non è afasia. Non è l’arte di non trarre mai conseguenze politiche da nulla. Se domani un giudice stabilirà responsabilità penali, bene: la giustizia faccia il suo corso. Ma la politica non può aspettare le sentenze per interrogare se stessa.
Volevamo aiutare Gaza? Allora bisognava dirlo chiaramente: senza Hamas non c’è futuro. Hamas non libera i palestinesi, li sequestra. Non costruisce uno Stato, costruisce tunnel. Non difende i civili, li usa come scudi. Finché questo dato elementare è stato rimosso, ogni “aiuto” ha rischiato di diventare carburante per la guerra.
Quando – e se – il regime di Hamas verrà smantellato, sarà inevitabile guardarsi indietro. Esaminare le reti, le complicità, le ambiguità. Capire chi ha davvero aiutato i palestinesi e chi, in nome di una superiorità morale autoproclamata, ha finito per aiutare i loro carnefici.
Quel giorno, il problema non sarà solo chi finirà sotto processo. Il problema sarà chi non avrà più alibi.
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