E Falcone disse a Palermo: «Il pm non può dirsi giudice, va regolato diversamente»
E Falcone disse a Palermo: «Il pm non può dirsi giudice, va regolato diversamente»Ecco l’autentica, testuale e fedele trascrizione della grande lectio sul ruolo del pubblico ministero che il giudice eroe pronunciò al “Gonzaga” esattamente 15 giorni prima di essere ucciso con sua moglie e la sua scorta
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Riportiamo di seguito il testo integrale della lectio di Giovanni Falcone all’Istituto Gonzaga dei Gesuiti, 8 maggio 1992.
Parlare di rapporti tra politica e magistratura in maniera serena e scevra da emozionalità, e senza riferimento alle vicende che tutti quanti stiamo vivendo o che comunque abbiamo sotto gli occhi in questo momento, è praticamente impossibile. Ma a questo punto mi domando se l’emozionalità, la polemica, la conflittualità fra magistratura e potere politico non possa essere, contrariamente a quello che generalmente si pensa, almeno in una quantità accettabile, un qualcosa di vivo e di vitale per approfondire i problemi.
Devo dire che sono stato, per un certo periodo di tempo, molto preoccupato dal fatto che problemi essenziali, fondamentali per la democrazia, come quelli di cui oggi ci occupiamo, non sembrassero più all’attenzione né degli addetti ai lavori né della società civile. E quelle rarissime volte che se ne parlava, era un po’ come uno stanco rituale. Mentre adesso, da un po’ di tempo a questa parte, le cose stanno cambiando, le cose sono cambiate e si discute di questi problemi con una passione civile che, al di là e nonostante le inevitabili strumentalizzazioni che se ne fanno, è qualcosa che veramente rincuora. Perché, ribadisco, su questi problemi, che non sono affatto problemi riservati a un’élite di esperti, si gioca lo stesso avvenire della nostra giovane democrazia.
Ed è veramente singolare però che – e per quel che potrò, anche oggi, come da un po’ di tempo sto facendo, cercherò di focalizzare certi punti, certi aspetti del problema –, dicevo, è veramente singolare che tuttavia, al di là di certe affermazioni di principio, al di là di certe contrapposizioni statiche, tuttora, però, non si vada. Senza raggiungere, e senza neanche avvicinarsi, almeno al mio modo di vedere, a quelle che sono le vere questioni.
Leggevo oggi… ho portato con me alcuni articoli e alcuni brani di certi libri, se volete per una forma di “tuziorismo”, perché certe volte, spesso – almeno a me capita – si confonde l’esistenza di un problema con chi lo denuncia: anziché occuparsi del problema, si demonizza chi pone la questione, chi cerca di attirare l’attenzione sul problema stesso. Ho portato quindi questi articoli, e questi brani da alcuni libri, perché su di essi possiamo fare una riflessione, per quanto possibile, serena.
Ecco, dopo una moda che per un certo tempo è stata pressoché costante, la moda del linciaggio, verso la politicizzazione dei giudici – dico linciaggio perché, se è vera la denuncia della politicizzazione dei giudici, almeno entro certi limiti, non è corretto l’uso strumentale che di queste inevitabili strutture è stato fatto nel corso di questi ultimi tempi –, dopo un periodo, dicevo, di attacco frontale contro i giudici, attacco che si è concretizzato, che ha avuto il suo punto più elevato nel referendum sulla responsabilità civile, ecco adesso, con una velocità degna di miglior causa, adesso siamo di fronte alla difesa ad oltranza della indipendenza dei giudici.
Cerchiamo di vedere un po’ meglio di che cosa ci si occupa, di che cosa stiamo parlando, perché altrimenti si corre il rischio di fare quel solito ragionamento per slogan che non ci fa fare un solo passo in là.
Ecco, vorrei trarre spunto da un articolo pubblicato oggi sul “Giornale” di Montanelli, un articolo di Salvatore Scarpino che, devo dire, è abbastanza pessimista, nel senso che i problemi da lui focalizzati, da lui messi in evidenza, a suo dire non hanno ancora possibilità di soluzione. In buona sostanza cosa afferma? Da un lato che, fra il malaffare degli uomini dei partiti e i cittadini su cui si scaricano i costi inconfessabili della corruzione, è rimasta soltanto la magistratura.
Abbiamo fatto, se volete, un notevolissimo passo avanti e se si pensa che, fino a poco tempo addietro, ci si addossava, ci si addebitava una cosiddetta supplenza che inevitabilmente è una stortura.
Adesso invece si afferma che… è l’angolo visuale che è mutato, ma la sostanza dei problemi non è mutata… adesso invece si afferma che, in realtà, tutte le strutture amministrative burocratiche di controllo sono saltate, o non sono mai state efficienti, e di fronte al malaffare della politica è rimasto soltanto il filtro della magistratura.
Oggi, ecco ribadisco, dice Scarpino – non lo dimentichiamo perché altrimenti poi sono io che le affermo, queste cose – oggi da una parte c’è il politico, governante, legislatore, amministratore, dall’altra c’è il giudice e, fra i due, un clima di sospetti e di rancore.
È così, mentre da un lato una frazione della magistratura si è messa a giocare alla politica avanzando pretese di impossibile supplenza nell’azione di governo – ecco, qui ritorna il discorso della supplenza –, dall’altro lo scandalo delle tangenti serve certamente per rinfocolare le polemiche. Con la conseguenza che, secondo questo autore, i veri problemi non vengono affrontati. E quindi i legittimi problemi di efficienza e di coordinamento nell’organizzazione del lavoro giudiziario non vengono affrontati, mentre per contro – ecco il discorso – molti politici vorrebbero irregimentare i pubblici ministeri per impedirgli di arrestare gli assessori sgraffignoni.
Insomma, in buona sostanza siamo ancora una volta in presenza della storia infinita delle reciproche querelle dei magistrati che addebitano al potere politico di voler soffocare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura per ottenere una sostanziale impunità, e dall’altro i politici che addebitano alla magistratura un sostanziale straripamento dai propri compiti per ergersi a una sorta di contropotere non legittimato da alcuna istanza popolare.
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