Chi teme che il Pm diventi poliziotto sappia che è già successo
L’argomento più solido dell’Anm contro la separazione delle carriere è anche già superato: da tempo la pubblica accusa ha tolto l’imputato dal centro del processo per metterci la vittima.
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E questo è un tradimento della giustizia. La posizione cruciale degli avvocati
L’argomento più solido (l’unico?) che l’Anm (Associazione nazionale magistrati) ha a sostegno del suo no alla separazione delle carriere di requirenti e giudicanti è che i primi, fuori dalla cultura dei secondi, diventerebbero dei superpoliziotti con il sospetto in tasca e l’accusa facile. Il timore di un pm che, dotato degli enormi e devastanti poteri che può esercitare oggi ben prima che un giudice si pronunci, è così ben noto ai magistrati che, collegato a un incontro genovese per il no al referendum, l’ha manifestato e sottolineato con forza persino il procuratore Nicola Gratteri, che (a torto o a ragione) oggi ha sostituito Antonio Di Pietro nel culto popolare del pm poliziesco. Gratteri ha ricordato come il pm a carriere unificate abbia per legge e vocazione una cultura giuridica che lo porterebbe addirittura a cercare le prove che scagionano il suo accusato.
Vero; ma è purtroppo vero anche il condizionale. Resto sempre sconcertato quando sento affermazioni come queste da parte di magistrati, perché certo dovrebbe essere così, ma risulta che troppe volte non succeda. Forse in casi di scarso clamore mediatico, ma in quelli svolti anche a mezzo stampa l’equilibrio, l’esitazione nell’accusa, la moderazione nelle richieste di custodia cautelare, le indagini che scagionano non si vedono tanto spesso (ce ne sono, beninteso) e innumerevoli sentenze dei tribunali del Riesame, numeri (specie per certi reati) non fisiologici di assoluzione nei vari gradi e perfino di risarcimento per ingiusta detenzione (impressionanti quelli forniti dal supplemento PQM del Riformista di sabato scorso), da ultimo anche condanne di pubblici ministeri (come nel caso Eni Nigeria) stanno a dimostrarlo. Il pm manettaro non è un’eventualità deprecabile in caso di separazione delle carriere, ma è una realtà purtroppo in atto, e il numero di persone e aziende distrutte non dal giudizio di un tribunale ma dall’aggressività di una procura è impressionante.
Ma da che cosa dipende questa deriva giustizialista della magistratura inquirente? Certo dallo spirito dei tempi, cui neppure i magistrati sono impermeabili. Ma anche da una sconcertante impreparazione culturale in troppi di loro sulla figura centrale del procedimento penale. Questa non è la vittima, privato cittadino o collettività a seconda dei casi e dei reati perseguiti, e in parte neppure il reato contestato, ma l’imputato. La civiltà del diritto moderno è fondata sulla cura dell’imputato, che diventa un condannato solo oltre ogni ragionevole dubbio e dopo vari gradi di giudizio. Prima della condanna definitiva è appunto solo un imputato e perfino nel linguaggio dovrebbe essere rispettato da chi lo accusa, specie quando lo fa a nome dello stato. Così non è, si sa bene. E non mi riferisco tanto ai “carichi da novanta” retorici dei pm nelle loro requisitorie (al processo per il ponte Morandi il principale imputato, l’ad di Autostrade, è stato paragonato a Voldemort!), inutili esibizioni di dubbio gusto, ma alla carenza di quel rispetto e di quel sacro timore che un pubblico ministero dovrebbe avere prima di formulare a nome dello stato un’accusa contro una persona di quella doverosa cautela nelle indagini e di tutte quelle premure di un diritto “mite” (come lo ha definito Vincenzo Roppo) che purtroppo molti pm oggi non hanno (più). Ed è triste anche se comprensibile che l’Anm non abbia il coraggio di ammetterlo.
La scarsa cura dell’imputato (sto per dire qualcosa che forse scandalizzerà qualcuno) si vede soprattutto nelle misure cautelari e nei provvedimenti pre e paraprocessuali quando questo è persona in vista, magari accusata di un reato soltanto colposo, cioè senza dolo né pericolo concreto per la collettività. Succede spesso che qualcuno, arrestato per un furto, sia fermato per un altro pochissimi giorni dopo, a volte nello stesso, perché non trattenuto agli arresti dopo il primo reato. Mentre si ricorderà la controversa decisione di tenere l’ex presidente della regione Liguria Toti ai domiciliari oltre ogni misura fino a che non si è dimesso dalla carica o, più di recente, le richieste di custodia cautelare per gli accusati dell’inchiesta milanese sull’urbanistica in buona parte respinte dal Riesame. Le procure, sia chiaro, applicano la legge sia quando scarcerano subito banali delinquenti (anche perché la prigione è soprattutto una palestra per delinquere meglio) che quando tengono in carcere o ai domiciliari illustri accusati di reati “da colletti bianchi”. Ma i modi di interpretarla sono opposti. Perché?
Non voglio pensare che i pubblici ministeri cerchino il consenso popolare, facendo la parte del giudice iniquo della parabola che dà ragione alla vedova perché fa molto chiasso, non perché abbia ragione. Penso piuttosto che dipenda dal fatto che per loro al centro dell’azione penale non c’è l’imputato con il reato di cui è accusato, ma la vittima che l’ha subito, sia questa una persona, più persone (i parenti delle vittime) o addirittura un’intera comunità (come nell’inchiesta milanese che ha lamentato l’”allarme sociale” per la scarsa “democrazia urbanistica”).
La centralità della vittima è solo apparentemente un segno della moderna civiltà giuridica, perché, invece, questa si distingue dal diritto più arcaico proprio per aver anteposto l’imputato persino alla sua vittima, che solo in certi sistemi (tra cui il nostro) è ammessa nel processo penale come parte civile (e non è detto che siano i migliori). Ora, se i veri contendenti nella battaglia per la riforma della giustizia non sono tanto la politica (è in campo solo quella della maggioranza) e la magistratura, quanto questa e l’avvocatura (anche se non si dice né si nota a sufficienza), la ragione sta nella controversia sul punto cruciale e basico della concezione del diritto penale moderno, sulla figura che sta al suo centro. Per gli avvocati è l’imputato, perché conoscono, per esperienza e interesse, la debolezza “incivile” in cui si trova e spesso è compiaciutamente gettato nelle procure chi è accusato, anche se poi il suo caso è archiviato o lui assolto. Gli avvocati, in questa contesa, sono paradossalmente (visto che in genere difendono criminali) dalla parte dei cittadini incolpevoli che potrebbero subire una giustizia ingiusta. I magistrati, specie i loro front man pm, sono invece (anche generosamente) protesi verso le vittime, le protagoniste mediatiche e più popolari dei processi odierni. I pubblici ministeri stanno dalla parte di chi un reato potrebbe subirlo.
Non starò a cercare di misurare quale incubo sia peggiore per il cittadino onesto, se l’incontro con la mala giustizia o con il malvivente. So che sono terribili entrambi e che dovrebbero non essere più possibili al giorno d’oggi. Specie il primo, che non è impossibile evitare. Mi limito a concludere osservando che al centro (del processo) non ci si sta in due. Nella loro difesa a priori della figura dell’imputato gli avvocati fanno una battaglia di moderna civiltà giuridica, invocando la centralità e il rispetto dell’accusato e lo scrupolo nella formulazione delle accuse in tutte le fasi del procedimento penale: cautele culturali e umane che sono spesso mancate, specie in sede di indagini preliminari. Per questo, se continuo a pensare che una miglior riforma avrebbe dovuto separare di più i pm dalla cultura della polizia giudiziaria e tornare a farne dei prudenti magistrati (magari obbligati a periodi di addestramento alla prudenza nei collegi giudicanti), e se quindi mi ostino a dubitare dell’efficacia della separazione delle carriere è per motivi che l’Anm non osa dire o prospetta solo come pericoli eventuali, mentre sono già in atto, e non da oggi. Per altro, la sua reticenza su di essi sarebbe la miglior ragione che i suoi oppositori avrebbero per contrastarla nella campagna per il referendum.
Di Vittorio Coletti su Huffpost
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