La morte apparente del critico gastronomico
C’era un tempo in cui il giudizio di un critico gastronomico faceva tremare i fornelli.
In evidenza
Quando la penna valeva più di un post
C’era un tempo in cui il giudizio di un critico gastronomico faceva tremare i fornelli.
Luigi Veronelli entrava in trattoria, assaggiava, annusava, ascoltava. E poi scriveva. Non per compiacere, ma per capire. Le sue parole potevano consacrare un’osteria o farla sparire nel giro di una settimana.
La critica non era spettacolo, era cultura.
Un mestiere che univa la conoscenza dei territori alla sensibilità letteraria, la curiosità antropologica al rispetto per chi cucinava. Scrivere di cibo significava raccontare un pezzo d’Italia, con le sue povertà, le sue eccellenze, le sue contraddizioni.
Poi è arrivata la rivoluzione digitale, e con essa una valanga di foto di piatti, “stories” di degustazioni, recensioni da 10 righe e 200 emoji.
Il cibo ha smesso di farsi leggere: ha cominciato a farsi guardare.
Dal taccuino allo smartphone: cronaca di una mutazione
In pochi anni, la figura del critico gastronomico — quella del giornalista che mangia, osserva, valuta e scrive — si è dissolta nel grande calderone dei “food creator”.
Sono arrivati i blog, poi Instagram, poi TikTok.
E con loro, una nuova generazione di protagonisti che non devono più saper scrivere: devono saper mostrare.
Il piatto perfetto non è più quello che emoziona, ma quello che fotografa bene.
Il “posto giusto” non è quello dove si mangia meglio, ma quello con la luce migliore.
Un tempo si parlava di sapori, oggi di visual storytelling.
Il risultato? Un’estetica patinata che spesso nasconde il vuoto: recensioni entusiaste per piatti mediocri, chef trasformati in star e follower trasformati in giudici.
Il critico in incognito e l’influencer invitato
C’è una scena simbolica che racconta la differenza tra ieri e oggi.
Il critico di un tempo prenotava in incognito, pagava il conto e scriveva ciò che pensava, anche a costo di essere odiato.
L’influencer moderno, invece, riceve un invito, un menù degustazione gratuito e un tag obbligatorio: “#collaborazione”.
Dove c’era la sorpresa, oggi c’è l’anticipo; dove c’era l’onestà, oggi c’è la reciprocità.
Il piatto non si giudica più, si “condivide”.
E la critica, che dovrebbe essere racconto, si riduce a una didascalia con tre aggettivi e un’emoticon di fuoco.
È il trionfo del gusto senza critica — o, peggio, del marketing travestito da verità.
La dittatura del like
La nuova censura gastronomica non passa più per le redazioni, ma per gli algoritmi.
Dire che un piatto è mediocre rischia di ridurre le visualizzazioni; esprimere un giudizio sincero può costare un “unfollow” o un cliente in meno.
E allora si tace. Si addolcisce. Si edulcora.
Così la critica, per sopravvivere, si è reinventata influencer.
Ha imparato a usare i filtri, a sorridere davanti al piatto, a scrivere “wow” dove una volta avrebbe scritto “banale”.
È un fenomeno curioso: il critico che voleva raccontare la verità finisce per interpretare una parte, proprio come uno chef televisivo che finge spontaneità davanti alla telecamera.
L’onestà come atto rivoluzionario
In un’epoca in cui tutto è comunicazione, dire la verità è un gesto radicale.
Per questo oggi la vera critica gastronomica è diventata una nicchia, quasi una forma di artigianato intellettuale.
Chi scrive ancora per raccontare il gusto lo fa per passione, non per visibilità.
Ecco perché chi non ha perso il gusto della verità — e non teme di dirla — può leggere la rubrica I Cattivi su SpazioNews24, dove la forchetta è più affilata della penna.
Un angolo di critica viva, ironica, colta e sincera, che non fa sconti né alle mode né agli chef-star.
Lì il cibo torna a essere racconto, emozione, materia di pensiero.
L’etica del palato (e la libertà del giudizio)
Essere critici, oggi, significa assumersi una responsabilità morale.
Non si tratta di stroncare per gusto, ma di restituire dignità al linguaggio del cibo.
Perché ogni piatto ha un prezzo, ma anche una storia, un lavoro, una scelta di vita dietro.
Il problema è che, in troppi casi, il giudizio è diventato merce di scambio.
Un invito a cena, un voucher, una bottiglia omaggio: bastano piccoli gesti per comprare silenzi e consensi.
E quando la critica diventa complice, muore la credibilità.
Serve tornare alla base: assaggiare con umiltà, scrivere con rispetto, giudicare con indipendenza.
Tre virtù semplici ma oggi rarissime.
Le nuove frontiere del gusto digitale
Eppure, non tutto il mondo digitale è da condannare.
Ci sono giovani divulgatori che usano TikTok per spiegare la stagionalità dei prodotti, chef che condividono ricette con reale competenza, giornalisti che portano la critica su piattaforme nuove ma con lo stesso rigore di sempre.
La chiave è l’equilibrio: usare i mezzi moderni senza perdere la sostanza.
Perché il pubblico, alla fine, riconosce chi parla con competenza e chi lo fa per business.
Il futuro della critica gastronomica potrebbe passare proprio da lì: dall’unione tra la profondità di una volta e la leggerezza comunicativa di oggi.
Un ritorno al contenuto, ma con un linguaggio più diretto, più umano, più contemporaneo.
Dal territorio al web: la nuova geografia del gusto
C’è un’Italia che continua a cucinare per passione, lontano dai riflettori.
Piccoli ristoranti di provincia, trattorie senza insegne luminose, chef che non hanno un profilo social ma hanno ancora le mani infarinate.
Lì, dove il pane profuma di legna e non di strategia, la critica gastronomica trova ancora un senso.
Ma per raccontare quei luoghi servono parole, non hashtag.
Servono giornalisti che tornino sul campo, che assaggino, che parlino con chi cucina davvero.
Servono voci che non abbiano paura di scrivere che un piatto è sbagliato — se lo è — o che un locale è meraviglioso anche se non fa tendenza.
È lì che sopravvive l’anima più autentica del mestiere.
Un lavoro da (ri)imparare
La verità è che fare il critico gastronomico oggi richiede più coraggio che mai.
Non basta un palato fine: serve indipendenza economica, onestà intellettuale e la capacità di dire “no”.
Dire no alle sponsorizzazioni mascherate, no ai regali, no ai ricatti sottili di chi confonde comunicazione con complicità.
La critica non deve piacere, deve servire.
Deve aiutare il lettore a orientarsi, il ristoratore a migliorarsi, la cultura gastronomica a non perdere se stessa.
È un ruolo sociale prima ancora che editoriale.
Epilogo: la resurrezione del gusto
Forse, dunque, non è morta davvero.
Forse la critica gastronomica si è solo presa una pausa, nauseata da troppe foto di avocado toast e cappuccini decorati.
Forse è viva sotto nuove forme, più discrete, più coraggiose, meno “instagrammabili”.
Perché ogni volta che qualcuno scrive di cibo con verità — che sia in una rivista, in un blog indipendente o su SpazioNews24 — la critica gastronomica torna a respirare.
Non urla, non posa, non vende: racconta.
E in fondo, raccontare il gusto è ancora il modo più nobile per difenderlo.
Contro la superficialità, contro l’omologazione, contro l’oblio del palato.
Perché finché qualcuno avrà fame di parole — non di like — la critica gastronomica non morirà mai davvero.
Altre Notizie della sezione
Studi a Milano per professionisti della salute: opportunità e spazi pronti all’uso
11 Novembre 2025Gli studi a Milano per professionisti della salute rappresentano oggi un punto di riferimento imprescindibile.
Diritti e doveri dopo un incidente: cosa è davvero utile sapere
10 Novembre 2025Dopo un incidente, la confusione iniziale lascia spesso spazio a domande pressanti.
E-commerce manager: competenze, strategie e strumenti
10 Novembre 2025Scopri chi è l’e-commerce manager e perché è fondamentale nel 2025. Competenze, strategie, strumenti e quando conviene inserirlo in azienda o collaborare con un partner.
