Anno: XXVI - Numero 215    
Venerdì 7 Novembre 2025 ore 14:25
Resta aggiornato:

Home » La Corte costituzionale fissa i criteri del “diritto vivente”: non basta una singola sentenza per definirlo consolidato.

La Corte costituzionale fissa i criteri del “diritto vivente”: non basta una singola sentenza per definirlo consolidato.

Con la sentenza n.162/2025 la Consulta chiarisce che solo interpretazioni reiterate e stabili della Cassazione possono integrare diritto vivente, escludendo decisioni isolate come la n.30994/2024.

La Corte costituzionale fissa i criteri del “diritto vivente”: non basta una singola sentenza per definirlo consolidato.

“Il “diritto vivente” si riferisce all’interpretazione consolidata di una norma da parte della giurisprudenza, che si affianca al testo scritto della legge. È il risultato di un processo in cui l’orientamento comune di giudici e dottrina nel fornire un significato a una norma viene recepito e filtrato, specialmente dalle corti supreme come la Cassazione, influenzando così l’applicazione del diritto. In questo senso, il diritto vivente rappresenta un dialogo dinamico tra il testo legislativo e le decisioni giudiziarie.” (Fonte: IA di Google).

La recente sentenza 162/2025 del 04.11.2025 della Corte Costituzionale declina i paletti per l’esistenza del cd. “diritto vivente”.

E veniamo al caso di specie.

Il Tribunale di Ravenna, con ordinanza del 27.01.2025, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 3, del d.l. 28.01.2019, n. 4, convertito nella legge 26/2019, in riferimento agli artt. 2 e 3, nella parte in cui – nel porre il divieto di cumulo della pensione anticipata maturata per aver raggiunto la cd. quota 100 con i redditi da lavoro dipendente o autonomo, nel periodo compreso fra il 1° giorno di decorrenza della pensione così anticipata e la maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia – essa, per come interpretata dalla Corte di Cassazione, Sezione lavoro, sentenza 04.12.2024, n. 30994, fa conseguire alla violazione di tale divieto, la sospensione dell’erogazione della pensione per un’intera annualità, anche nel caso di svolgimento di attività di lavoro subordinato per periodi molto limitati e con redditi esigui, nel caso di specie per una sola giornata, pari a 8 ore di lavoro, con reddito effettivamente percepito dal ricorrente in complessivi € 83,91 lordi.

Nel giudizio avanti la Corte Costituzionale l’Avvocatura Generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della eccezione proposta in relazione al fatto che il remittente, pur ritenendo possibile un interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, non l’ha seguita, sollevando questione di legittimità costituzionale della medesima, in base all’opposta lettura che di essa ha dato una singola pronuncia della Sezione lavoro della Corte di Cassazione, ritenuta per errore diritto vivente.

Nel caso di specie la Corte Costituzionale ha accolto l’eccezione dichiarando inammissibili le questioni di legittimità costituzionale proposte.

Ineccepibili, a mio giudizio, le conclusioni della Corte Costituzionale che ha così affermato:

“Secondo l’ormai costante giurisprudenza di questa Corte, «se è vero che le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime “perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)”, ciò però non significa che “ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito” (sentenza n. 42 del 2017; nello stesso senso, sentenza n. 83 del 2017)» (sentenza n. 77 del 2018). In particolare, ciò avviene allorquando il giudice abbia motivato, in maniera non implausibile, l’impraticabilità dell’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, escludendola consapevolmente o per la presenza di un orientamento giurisprudenziale contrario consolidato, che assurga a “diritto vivente”, o per il tenore letterale della disposizione censurata. In entrambe le suddette ipotesi, «[l]a correttezza o meno dell’esegesi presupposta dal rimettente – e, più in particolare, la superabilità o non superabilità degli ostacoli addotti» alla predetta interpretazione – “attiene […] al merito, e cioè alla successiva verifica di fondatezza della questione stessa” (da ultimo, sentenza n. 204 del 2021)» (sentenza n. 219 del 2022).

Più precisamente, in presenza di uno stabile approdo ermeneutico della giurisprudenza di legittimità – ravvisato non solo in presenza di un’interpretazione fornita dalle sezioni unite della Corte di cassazione e poi stabilizzatasi nella giurisprudenza di legittimità (sentenza n. 73 del 2024) ma, più in generale, a fronte di una interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità reiterata e conseguentemente stabile (sentenza n. 38 del 2024) – il giudice a quo ha «la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di diritto vivente e di richiederne, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (sentenza n. 243 del 2022)» (sentenza n. 73 del 2024). Ciò «senza che gli si possa addebitare di non aver seguito altra interpretazione, più aderente ai parametri stessi» (sentenza n. 180 del 2021): la norma «vive ormai nell’ordinamento in modo così radicato che è difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema senza l’intervento del legislatore o di questa Corte (sentenze n. 141 del 2019 e n. 191 del 2016)» (ancora, sentenza n. 73 del 2024).

In tal caso, del “diritto vivente” questa Corte «non può che prendere atto, non potendo sostituirsi alla giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione delle disposizioni legislative, ed essendo piuttosto il proprio compito confinato alla verifica se il risultato di tale interpretazione sia compatibile con i parametri costituzionali evocati dal giudice a quo» (sentenza n. 116 del 2023).

In considerazione del rilievo assegnato al «consolidamento» dell’interpretazione della disposizione censurata offerta dalla giurisprudenza di legittimità diviene, dunque, centrale l’accertamento dello stesso, connesso all’«uso ripetuto nel tempo» e al «grado di consenso raccolto» (sentenza n. 38 del 2024). Accertamento che, «soprattutto in mancanza di un arresto nomofilattico delle Sezioni unite» (ancora, sentenza n. 38 del 2024), è necessario a «verificare se decisioni, pur rese dalla Corte di cassazione, possano o meno ritenersi espressive di quella consolidata interpretazione della legge che rende la norma, che ne è stata ritratta, vero e proprio “diritto vivente” nell’ambito e ai fini del giudizio di legittimità costituzionale, atteso che la “vivenza” della norma costituisce “una vicenda per definizione aperta” (sentenza n. 202 del 2023)» (nuovamente, sentenza n. 38 del 2024).

L’unico ostacolo indicato dal rimettente sta, dunque, nella citata sentenza n. 30994 del 2024, che ha individuato le conseguenze della violazione del divieto di cumulo di cui al citato art. 14, comma 3, nella perdita totale del trattamento pensionistico, non solo per i mesi in cui è stata espletata l’attività lavorativa, bensì per tutto l’anno solare di riferimento.

Tale sentenza, tuttavia, è rimasta finora unica nella giurisprudenza di legittimità, anche perché adottata assai di recente. Essa, peraltro, risulta non avere avuto un seguito generalizzato da parte dei giudici di merito, considerato che essa è stata seguita da alcune pronunce (fra le altre, Corte d’appello Milano, sezione lavoro, sentenza 7 agosto 2025, n. 629; Corte d’appello Bologna, sezione lavoro, sentenza 16 giugno 2025, n. 311), ma se ne rinvengono altre che l’hanno disattesa, esprimendo un diverso indirizzo (fra le altre, Corte d’appello Brescia, sezione lavoro, sentenza 15 aprile 2025, n. 81; Corte d’appello Trento, sezione lavoro, sentenza 20 marzo 2025, n. 14), in alcuni casi in linea con l’interpretazione proposta dall’attuale rimettente.

Appare, pertanto, evidente che non ricorrono, nella specie, quei requisiti di reiterazione e stabilità che questa Corte ha ripetutamente ritenuto necessari a conferire all’orientamento interpretativo espresso dalla giurisprudenza di legittimità un grado di consolidamento tale da rivelare il suo radicamento nell’ordinamento (fra le altre, sentenze n. 101 del 2023 e n. 122 del 2017) e da farlo assurgere realmente a “diritto vivente”, così da indurre il giudice che ne ravvisi il possibile contrasto con la Costituzione a investire questa Corte e da indurre questa Corte a pronunciarsi su di esso.” (sentenza n. 162/2025)

Alla luce di questi principi la sentenza della Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, n. 29042 del 03.11.2025, ultima di una serie tutte concordi e relative alla medesima ricorrente (Cassa Forense) e al medesimo fatto, con la quale sono stati enunciati questi principi di diritto:

– “In tema di previdenza forense, l’entità dei redditi da assumere per il calcolo della media di riferimento, ai fini delle pensioni di vecchiaia maturate dal 1° gennaio 1982, va rivalutata a partire dall’anno di entrata in vigore della legge n. 576 del 1980, ai sensi dell’art. 27, comma 4, della stessa legge, e, quindi, dal 1980, applicando l’indice medio annuo ISTAT dell’anno 1980, relativo alla svalutazione intercorsa tra il 1979 e il 1980”,

– “In tema di previdenza forense, i redditi da prendere a riferimento per il calcolo della pensione di vecchiaia, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 576 del 1980, sono quelli coperti da contribuzione effettivamente versata sicché, in caso di applicazione su tali redditi di un coefficiente di rivalutazione ISTAT inferiore a quello dovuto, con corrispondente minore contribuzione versata ai sensi degli artt. 10 e 18, comma 4, della stessa legge, la pensione di vecchiaia va determinata prendendo a riferimento i redditi rivalutati secondo il minor coefficiente applicato, anziché secondo quello maggiore dovuto

Premesso che la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha affermato che l’errore circa la convinzione di non essere obbligati (nel caso di specie, la convinzione di essere obbligati per una minore misura dell’obbligo contributivo), può valere come causa non imputabile di inadempimento ex art. 1218 c.c., ove si tratti di errore non vincibile con la dovuta diligenza (Cass. n.1003/1986; Cass. n.2586/1986; Cass. n.7729/2004), va detto che questo profilo attiene non all’inadempimento, il quale sussiste come violazione dell’obbligazione contributiva (adempiuta solo parzialmente), bensì alla sua non imputabilità, ai sensi dell’art. 1218 c.. Vertendosi in tema di responsabilità contrattuale, al creditore basta allegare l’inadempimento (v. Cass., SU, n.13533/2001), mentre incombe sul debitore dimostrare di avere fatto tutto il possibile per adempiere. Il tema della prova liberatoria, non indagato dalla sentenza impugnata, andrà, quindi, valutato in sede di giudizio di rinvio” può dirsi diritto vivente.

 

© Riproduzione riservata

Iscriviti alla newsletter!Ricevi gli aggiornamenti settimanali delle notizie più importanti tra cui: articoli, video, eventi, corsi di formazione e libri inerenti la tua professione.

ISCRIVITI

Altre Notizie della sezione

Archivio sezione

Commenti


×

Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie.