Il Pd, per come lo abbiamo conosciuto, sembra non esserci più"
Intervista all'ex direttore dell'Agenzia delle entrate, Ernesto Maria Ruffini, oggi alla guida del movimento Più Uno: "Il Pd ha rinunciato alla sua ragione costitutiva: essere un partito plurale e sufficientemente largo da accogliere culture politiche diverse.
In evidenza

Oggi segue lo schema di gioco della destra. Parlare accordi e costruiti in laboratorio rischia di diventare una narrazione solo politicista”
Ernesto Maria Ruffini è un tipo di poche parole. Da quando ha lasciato la guida dell’Agenzia delle entrate e si è messo a lavorare al movimento “Più Uno”, ha rilasciato poche interviste. Oggi accetta di parlare con HuffPost. E i suoi giudizi sono taglienti: “Il campo largo sembra essere interessato a trovare la ricetta migliore per vincere le prossime elezioni politiche, non a elaborare una politica nuova, un progetto di Paese. La politica non può ridursi a voler solo battere l’avversario”. Per Ruffini serve, invece, “un pensiero politico condiviso, che sia la sintesi di una comunità partecipata dalle migliori energie del Paese”. E ritiene che sia fuorviante il dibattito intorno a un nuovo centro: “Occorre piuttosto tornare allo spirito che ha dato vita al progetto originario dell’Ulivo e dal quale è poi nato il Pd. Oggi invece il Pd, per come lo abbiamo conosciuto, sembra non esserci più. La vocazione maggioritaria delle sue origini nasceva dall’ambizione di voler offrire un ponte tra le diverse culture che erano alla base dei partiti che lo avevano formato. Ma il Pd oggi sembra aver rinunciato a quell’ambizione”. Il dato più allarmante, secondo Ruffini, è la crescita dell’astensione: “Quando a votare va soltanto il 45 per cento dei votanti, la democrazia rischia di appassire. Non c’è molto da festeggiare quando chi ha vinto ha ricevuto il voto di poco più di un quarto degli elettori. Perché è questo che è accaduto alle ultime regionali. E vale tanto per la sinistra, quanto per la destra”. La preoccupazione di Ruffini è rivolta a un futuro prossimo: “Il rischio è che la politica provi a sanare la disaffezione al voto con un talent show di candidati, senza una sintesi di valori e di idee da presentare convintamente agli elettori”. Ma andiamo con ordine.
Renzi ha lanciato la Casa riformista, l’assessore romano Onorato lavora alla Rete civica con sindaci e assessori e lei gira l’Italia per strutturare il movimento Più Uno. Prima o poi vi metterete d’accordo?
Sicuramente non mancheranno le occasioni per incontrarci. Ma prima di parlare di accordi, resto nella mia convinzione che la priorità sia quella di riportare al voto le persone che hanno smesso di affidare alla politica le proprie speranze, per farle sentire partecipi di un progetto comune e farle interessare al presente e al futuro del Paese. Parlare di operazioni o accordi pensati e costruiti in laboratorio rischia di diventare una narrazione solo politicista che allontana ancora di più le persone dalla politica e dalle urne. Più Uno nasce per questo motivo, con la convinzione che nel Paese ci sia un enorme desiderio di partecipazione che i partiti non riescono a intercettare, troppo impegnati a parlare del destino dei propri gruppi dirigenti. Uscire dalla propria comfort zone è la vera scommessa per il Paese: c’è bisogno di una classe politica in grado di raccoglierla. La democrazia è un telaio dove possono, anzi devono poter convivere i fili dei diversi colori chiamati a tessere la tela del nostro Paese. L’alternativa è la disaffezione degli elettori.
E un astensionismo che ha raggiunto vette impensabili. È così?
Sì. Può sembrare una partita persa in partenza, ma non possiamo rassegnarci, perché una democrazia senza partecipazione è destinata a soccombere di fronte alla sfida di un potere autocratico che oggi appare più efficiente e decisivo. Non si può ridurre la grammatica politica alle sole candidature del momento.
A proposito di candidature, come quella della sindaca di Genova, molti puntano su di lei…
Apprezzo l’impegno della sindaca di Genova e sono certo che anche lei sappia che il primo pensiero del centrosinistra deve essere quello di elaborare una politica per cambiare l’Italia. I nomi vengono dopo. Se andiamo solo in cerca di un capo in cosa saremmo diversi dalla destra? La domanda vera che tarda ad arrivare è un’altra: cosa è che può tenere unito il centrosinistra con entusiasmo e quindi partecipazione? Certamente non può essere solo un volto o un nome.
E a lei cosa l’appassiona?
Ricordare quali sono in fondamenti della democrazia e cosa significhino oggi, soprattutto per le nuove generazioni, parole come uguaglianza, partecipazione e comunità. E poi rimettere ordine nelle priorità dell’agenda politica. In Italia vivono quasi sei milioni di persone al di sotto della soglia assoluta di povertà, che non dispongono neanche di quelle minime risorse necessarie per acquistare i beni e servizi essenziali per vivere, come cibo, alloggio e vestiario. A cosa serve la politica se non ad appianare le diseguaglianze, specialmente quelle così evidenti? Per chi governa un tema come questo dovrebbe essere un’ossessione. E le mancate risposte forse sono una delle cause che spiegano perché milioni di italiani non si recano più al voto. Non si tratta solo di trovare le risorse economiche – che ci sono e devono essere solo investite in un progetto e non spese a pioggia senza una prospettiva comune – ma si tratta di tracciare insieme un disegno dentro il quale tutti si sentano rappresentati, nella composizione possibile degli interessi. L’unità di un Paese, la coesione sociale si costruiscono così. La democrazia vive soltanto se riesce a essere “una casa comune” dove ogni cittadino si sente parte di un progetto condiviso e dove la politica torna a essere un servizio, non un privilegio. Era questo il fondamento del progetto originario del centrosinistra di governo.
Cosa vuol dire concretamente tornare al progetto originario del centrosinistra?
Per rispondere è necessario fare un passo indietro e ricordare che il Pd, almeno negli ultimi tempi, ha rinunciato alla sua ragione costitutiva: essere un partito plurale e sufficientemente largo da accogliere culture politiche diverse, con l’ambizione di mettere in campo una proposta di governo capace di parlare a tutta la società. Una volta si sarebbe detto interclassista. Il Partito democratico, forse qualcuno l’ha dimenticato, è nato dalla fusione dei Ds con la Margherita, dal matrimonio tra post-comunisti e cattolici democratici e con le migliori espressioni delle tradizioni liberal democratiche. L’obiettivo era quello di declinare al futuro la forza delle culture politiche “costituzionali” per costruire insieme quello che fu chiamato il motore riformista del Paese.
L’attuale Pd è molto diverso…
Mi sembra di capire che si sia rinunciato a questa ambizione per accettare invece lo schema di gioco imposta dalla destra: la polarizzazione. Credo che sia un grave errore di prospettiva. L’Italia, oggi più che mai, ha bisogno di una grande forza politica che unisca il Paese. Che non rinunci a parlare a tutti. Che si ponga il problema del buongoverno prima di quello dell’interesse di parte. Dunque, il vero dato politico non è che si sia liberato uno spazio al centro, ma che si è rinunciato a quello spazio di centrosinistra creato con fatica nel processo costitutivo dell’Ulivo e quindi poi nella storia del Pd.
Sembra che voglia sfidare Schlein. È così?
Ho un’idea molto diversa di come costruire la coalizione. Non mi convince lo schema dei cespugli attorno alla quercia… Il centrosinistra non si costruisce in un laboratorio, ma nel Paese, tra la gente, soprattutto tra quelli che oggi rifiutano l’offerta politica di questi partiti. Più Uno ha questa ambizione: ripartire dal basso. Affrontare le questioni di cui le famiglie parlano ogni giorno. Le persone, anche senza accorgersene, si occupano continuamente di politica, di temi politici. Come è andato il colloquio di lavoro? Sei riuscito a fare le analisi? Come è stata la pagella? … Cos’altro sono queste semplici domande se non le basi per iniziare a confrontarsi su temi politici come quelli del lavoro, dell’istruzione, della sanità e tutti gli altri che interessano la vita delle persone? Ed è per questo che si deve ripartire dai contenuti, ascoltare il Paese e riattivare la partecipazione per trovare insieme le risposte con entusiasmo e passione.
Un percorso ai limiti dell’impossibile non crede?
Ma è un percorso obbligato a meno di accontentarsi di vivere in un Paese dove il 55 per cento degli italiani non va a votare, dove la maggioranza assoluta degli elettori non si sente più parte di una comunità. Se si riduce il corpo elettorale, le elezioni rischiano di essere vinte da una campagna di marketing ben fatta, ma priva di una visione.
Torniamo al Centro. Davvero con Renzi e Onorato non vuole avere nulla a che fare?
Perché riporta tutto ai nomi? Non si vince con l’album delle figurine, ma tornando ad ascoltare gli italiani, le loro fatiche, le loro angosce, le loro attese, le loro speranze.
di Alberto Gentili su Huffpost
Altre Notizie della sezione

L’Italia può portare l’Ue nella ricostruzione di Gaza
16 Ottobre 2025Minniti: Meloni brava a non isolare Trump.

La Lega riprenda in mano i nostri valori
15 Ottobre 2025Fontana: 'Dobbiamo essere il partito dei territori, qualcosa va rivisto'

Se vince il No alla riforma la magistratura rischia una deriva plebiscitaria.
14 Ottobre 2025Secondo il giurista Giorgio Spangher, il referendum sarà una sfida all’ultimo voto in cui (quasi) “tutto” è concesso. Eppure, c’è qualche rischio...