Stop agli incarichi ai pensionati nella Pa
La Corte dei conti ribadisce il divieto di consulenze ai titolari di pensione nelle Pubbliche amministrazioni: resta possibile solo la formazione e l’affiancamento dei neoassunti. Una scelta che punta al ricambio generazionale ma che apre il dibattito su competenze, costi e futuro della macchina pubblica.
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In un ufficio del Comune di Cassino, qualche mese fa, è arrivata una domanda semplice e insieme complicata: possiamo richiamare l’ex responsabile del servizio tributi, da poco in pensione, per un incarico temporaneo e straordinario? Il sindaco, pressato dall’urgenza di tenere i conti in ordine, ha chiesto un parere alla Corte dei Conti. La risposta dei giudici è stata secca, senza appelli: no. Nessuna consulenza, nessun incarico, nessun ritorno operativo. Solo formazione, solo affiancamento ai più giovani, ma mai più ruoli di responsabilità o di direzione.
Con quella delibera la Corte dei Conti del Lazio non ha fatto altro che ribadire un principio scolpito nella legge dal 2012, quando il governo Monti impose il divieto di incarichi di studio e consulenza ai pensionati, nel nome della spending review e del ricambio generazionale. Un principio che dieci anni dopo continua a dividere, perché si colloca in una terra di mezzo tra l’esigenza di contenere i costi e quella di non disperdere competenze preziose.
C’è chi applaude alla chiarezza del divieto: niente doppi stipendi, niente privilegi, basta pensionati che tornano in ufficio come se nulla fosse. Ma ci sono anche sindaci, dirigenti e cittadini che raccontano un’altra faccia della medaglia. Nei piccoli comuni, spiegano, non è facile trovare figure esperte, e richiamare un ex dirigente, magari l’unico che conosce a fondo i bilanci di quell’ente, può sembrare l’unica strada praticabile.
Nella delibera, i giudici contabili spiegano che la legge non lascia margini: il pensionato può solo formare i neoassunti, trasferire conoscenze, accompagnare per un periodo limitato chi entra in amministrazione. Non può sedersi di nuovo dietro la scrivania con un incarico operativo. Eppure, in Italia, secondo Istat, sono ancora centomila i pensionati che dichiarano di essere occupati, ottantamila dei quali concentrati in scuola e sanità. L’età media è di sessantanove anni e quasi l’ottanta per cento sono uomini. Una popolazione che lavora nonostante l’uscita dal servizio, in un Paese in cui l’età media dei dipendenti pubblici è già altissima: quattro su dieci hanno tra i cinquanta e i cinquantanove anni, sedici su cento hanno superato i sessanta.
Il divieto del 2012, inserito in un decreto che parlava di tagli e revisione della spesa, nasceva da due preoccupazioni: evitare il raddoppio dei costi e favorire l’ingresso dei giovani. Un ex dirigente in pensione che percepisce la pensione e un compenso per consulenza pesa due volte sulle casse pubbliche. Allo stesso tempo, occupa uno spazio che potrebbe essere destinato a un nuovo assunto. Non era solo un problema economico, ma anche di principio: la pubblica amministrazione non poteva più permettersi di vivere di rendita, doveva aprirsi a nuove energie.
Ma davvero è andata così? Davvero i giovani hanno trovato spazio grazie a quel divieto? I dati raccontano una storia più complessa. Le assunzioni nella Pa sono rimaste limitate per anni, frenate dai vincoli di bilancio e dal blocco del turn over. Il risultato è che, mentre i pensionati non potevano più rientrare come consulenti, non sempre i giovani sono stati assunti. E così gli uffici hanno continuato a invecchiare.
Il nodo è quello delle competenze. In tanti uffici comunali e regionali, soprattutto nelle aree interne, mancano figure con esperienza tecnica. “Abbiamo concorsi deserti, candidati che rinunciano per stipendi bassi e responsabilità enormi”, racconta un sindaco abruzzese. “E intanto abbiamo ex dirigenti che conoscono ogni dettaglio dei bilanci, ma non possiamo richiamarli. Alla fine ci arrangiamo come possiamo.”
La Corte dei Conti non ignora il problema, ma lo affronta con un distinguo netto: formazione sì, consulenza no. L’ex dirigente può affiancare i neoassunti, trasmettere metodi e conoscenze, ma poi deve farsi da parte. È una sorta di staffetta generazionale, che funziona solo se dall’altra parte c’è qualcuno da formare. Se i giovani non arrivano, quella staffetta resta sospesa.
Il confronto con altri Paesi mostra che l’Italia ha scelto la linea più rigida. In Francia gli ex funzionari possono essere richiamati, ma con compensi limitati. In Germania le consulenze sono ammesse solo in casi eccezionali. In Spagna vale un divieto simile a quello italiano, ma con margini più ampi per deroghe legate all’interesse pubblico. Da noi, la legge del 2012 ha tagliato netto, senza distinzioni.
L’unica vera apertura riguarda il Pnrr, il grande piano di investimenti finanziato dall’Europa. Qui la Corte ha riconosciuto che servono flessibilità e velocità, e che in alcuni casi le amministrazioni locali possono affidarsi a pensionati per incarichi specifici e indispensabili. Una finestra che rivela quanto il divieto, pur tassativo, possa risultare difficile da applicare in contesti straordinari.
Il dibattito, in fondo, ruota attorno a una domanda antica: come bilanciare esperienza e innovazione? Da un lato, il Paese ha bisogno di giovani che portino digitalizzazione, nuove competenze, nuove energie. Dall’altro, c’è il rischio di disperdere un patrimonio di conoscenze costruito in decenni di lavoro. Il legislatore ha scelto di spezzare il legame con il passato, nella speranza di aprire la strada al futuro. Ma il futuro tarda ad arrivare, e gli uffici continuano a invecchiare.
La delibera della Corte dei Conti del Lazio non introduce novità, ma conferma che la regola non cambia: nessun incarico di consulenza per i pensionati. Resta la possibilità della formazione e dell’affiancamento, ma nulla di più. È una scelta coerente con la logica della spending review, ma che non chiude il dibattito. Perché dietro le norme ci sono le persone: i funzionari che hanno dedicato la vita alla pubblica amministrazione, i sindaci che cercano disperatamente soluzioni, i giovani che faticano a entrare in un mondo che appare ancora troppo chiuso.
La vera sfida, oggi, non è decidere se i pensionati possano o meno tornare in servizio, ma costruire un sistema che sappia valorizzare le competenze di chi esce e le energie di chi entra. Un sistema che trasformi il divieto in opportunità, che faccia della formazione non un ripiego ma un ponte tra generazioni. Perché solo così la macchina pubblica potrà diventare più efficiente, sostenibile e capace di rispondere alle sfide di un Paese che cambia.
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