Lacrime a geografia variabile
A Gaza insonnie e dichiarazioni strappacuore, in Sudan e Tigray neanche un post su Instagram.
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L’empatia occidentale funziona a intermittenza, come il Wi-Fi scadente: prende solo dove ci conviene.
All’improvviso, il jet set scopre l’insonnia. Attrici che piangono, registe che non riescono più a lavorare, fotografi internazionali «frantumati nell’anima». Tutti devastati da Gaza. E va bene: dolore vero, tragedia immane. Ma viene un sospetto: possibile che a nessuno sia mai saltata una notte di sonno per le centinaia di migliaia di morti in Sudan o in Tigray? Forse lì il massacro è meno fotogenico, niente dirette su TikTok, nessun simbolo religioso da brandire come scenografia.
Il conflitto israelo-palestinese è il dramma perfetto: Gerusalemme, la Shoah, il colonialismo, la Resistenza, l’apartheid, il terrorismo. Uno spettacolo pronto per Netflix, con titoli forti e trama riconoscibile. Gaza fa audience, Khartoum no. In Congo poi è ancora peggio: guerre dimenticate da trent’anni, milioni di vittime e nessuna colonna sonora. Chi si alza dal divano per quello?
Così l’Occidente recita: «Ogni vita conta». Poi però le conta male. Se muori sotto le bombe israeliane o nei tunnel di Hamas, sei una tragedia universale. Se muori a Mariupol o a Mekelle, sei un fastidioso disturbo statistico.
E allora sì, Netanyahu criminale, Hamas terroristi, civili innocenti massacrati: tutto vero. Ma la verità più imbarazzante è un’altra: piangiamo solo dove la nostra cultura ci ordina di piangere. Il resto del mondo può tranquillamente morire in silenzio, che tanto non fa tendenza.
O smettiamo di distribuire la compassione a zone tariffarie, oppure chiamiamola con il suo vero nome: ipocrisia deluxe.
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