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Mercoledì 8 Maggio 2024 ore 13:00
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Oltre 30 milioni bloccati al Ministero dell’Università per i contratti non assegnati dal concorso di specializzazione

La protesta dei medici: «La cifra potrà superare i 100 milioni»

Oltre 30 milioni bloccati al Ministero dell’Università per i contratti non assegnati dal concorso di specializzazione

In tempi in cui il governo è in difficoltà a trovare fondi per la manovra, più di 30 milioni di euro sono bloccati al Ministero dell’Università, ma la cifra entro il prossimo agosto potrebbe «salire a più di 100 milioni». Come è possibile? Questo denaro deriva dai posti non assegnati per il concorso di specializzazione medica del 2023. La questione principale è una: il Mur ha stanziato più contratti rispetto al numero di candidati.

Ma andiamo con ordine. Lo scorso maggio il Ministero pubblica il bando per gli specializzandi: i candidati presenti nella graduatoria, resa nota il 3 agosto, sono 14.036. Il 26 settembre il Mur, attraverso un decreto, rivela il numero dei «posti disponibili coperti con contratti finanziati con risorse statali»: sono 543 in più rispetto al numero dei candidati (14.579). Ogni contratto vale 25 mila euro. Il conto, quindi, è presto fatto: «prima dell’inizio del concorso, il denaro stanziato in eccesso era già superiore ai 13,5 milioni di euro» come spiega Massimo Minerva, presidente dell’Associazione Liberi Specializzandi (Als), e il denaro «rimarrà bloccato almeno fino ad agosto 2024». Ma la cifra è in crescita.

Secondo i dati Als i candidati che non possono usufruire dei contratti statali sono saliti a 1220: 30,5 milioni di euro. Ma secondo le previsioni di Minerva entro fine 2023 «la cifra salirà a più di 100 milioni, con circa 4 mila specializzandi che non usufruiranno delle borse». Su cosa si basano queste previsioni? Ci sono degli episodi che si ripetono ciclicamente ogni anno. Molti rinunciano, soprattutto coloro che ritentano il concorso per una specializzazione più ambita ma falliscono. Altri invece preferiscono percepire solo le borse regionali. La fetta percentuale dei rinunciatari «è quasi sempre la stessa» dice Minerva.

La Stampa

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