GLI INVISIBILI DELLA SANITÀ PUBBLICA
Ogni anno circa 10.000 medici accedono alle scuole di specializzazione in Italia.
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Si preparano a diventare anestesisti, cardiologi, psichiatri, ginecologi — professionisti essenziali per la tenuta del sistema sanitario. Il loro percorso dura dai 4 ai 6 anni e viene retribuito con una borsa di studio di circa 1.600 euro lordi al mese, che, tra tasse universitarie e contributi, si riduce a poco più di 1.300 euro netti.
«Studiamo sei anni e facciamo una specializzazione per uno stipendio che non ti permette di mantenerti da solo», racconta uno degli specializzandi intervistati. Un altro aggiunge: «Agli occhi dello Stato siamo visti come studenti, ma in reparto siamo trattati come medici esperti».
Nonostante siano ancora in formazione, spesso coprono i buchi di organico degli ospedali, svolgendo mansioni ripetitive e poco formative, con responsabilità crescenti e supervisione ridotta. «Capita di essere lasciati soli a gestire interi reparti, ben oltre le 38 ore settimanali previste, in una sorta di autogestione tra specializzandi più anziani e più giovani», racconta Giuseppe Leonardo Cucè. Una situazione che, oltre a mettere a rischio i medici in formazione, può compromettere anche la qualità dell’assistenza ai pazienti.
Il carico economico pesa ulteriormente su un equilibrio già fragile. «Con il costo della vita di una città come Roma – spiega Giammaria Liuzzi, coordinatore dell’Associazione Liberi Specializzandi- è impossibile mantenersi da soli. Non ci sono straordinari, né tredicesima, né indennità per i festivi. E lo stipendio è lo stesso, che tu viva a Napoli o a Milano». Pierluigi Frasca, specializzando in gastroenterologia, è ancora più diretto: «Ho quasi 28 anni e ancora non riesco a essere davvero indipendente. Dopo tutte le spese, restano poco più di 1.300 euro al mese. È chiaro che non basta».
Nel 2024 per la prima volta, le borse disponibili (15.000) hanno superato i candidati (14.000). Eppure, molti posti sono rimasti vuoti, soprattutto in discipline considerate meno attrattive come medicina d’urgenza, tossicologia o igiene. «Chi vuole scegliere con il cuore, spesso finisce in percorsi poco tutelati e sovraccarichi», si osserva nel podcast.
Il caso della medicina d’emergenza è emblematico: è una delle specializzazioni più scoperte, anche per il crescente rischio di aggressioni. Narciso Mostarda, direttore di Ares 118, spiega: «Il carico emotivo e la pressione legale sono così elevati che i giovani non si sentono tutelati. E senza garanzie, nessuno vuole fare questo lavoro».
Di fronte a questa realtà, molti giovani medici scelgono di emigrare. In Germania, ad esempio, uno specializzando guadagna oltre 3.000 euro netti al mese. In Spagna, ha un contratto regolare con uno stipendio crescente anno dopo anno. Chi resta in Italia lo fa per passione, per senso di responsabilità o per speranza. Ma ogni anno sono sempre meno.
Il nostro Paese continua a formare medici di alto livello, ma li scoraggia nel momento cruciale della loro crescita professionale. Il risultato è una fuga di cervelli che impoverisce ulteriormente la sanità pubblica, già in affanno.
Eppure, una via d’uscita esiste. Guardare ai modelli europei, offrire contratti veri, retribuzioni dignitose e percorsi chiari può essere il primo passo. Come afferma un intervistato: «Vogliamo solo poter fare bene il nostro lavoro, senza essere trattati come lavoratori di serie B»
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