Uniti si vince (forse). E poi difficilmente si governa
L’entusiasmo di Schlein & C. per le vittorie di Genova e Ravenna è un po’ esagerato: per arrivare al governo del paese servono una leadership condivisa e idee conciliabili su economia, Europa, atlantismo, guerra, riarmo, da Fratoianni a Calenda passando per Conte. Parlano Giovanni Orsina e Antonio Polito
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Vincere a Genova è cosa ben diversa che farlo in tutta Italia. E grazie. La sbornia del campo largo scemerà e i leader dei partiti di opposizione, vittoriosi laddove si sono uniti a livello locale contro la destra, torneranno a fare i conti con la realtà. Fuori da Genova e Ravenna, il campo largo, inteso come coalizione politica, programmatica e di governo, non esiste. “In due anni e mezzo di governo Meloni, non hanno fatto alcun passo avanti e siamo lontanissimi da una soluzione”, spiega Giovanni Orsina. Come il politologo della Luiss, anche l’editorialista del Corriere della Sera, Antonio Polito, ragiona con HuffPost ed enfatizza il collante elettorale: “Alla fine andranno insieme, ma se volete convincermi che la coalizione di sinistra sia in grado di governare allora dico di no”. Le divisioni sono ancora troppe: l’agenda economica, la postura sull’Ucraina, il nodo della leadership, persino il lavoro con gli strascichi del JobsAct. La strada è lunga, lunghissima.
“Vinciamo se uniti, Meloni cominci a preoccuparsi”. Dalle colonne di Repubblica, la segretaria del Partito democratico rivendica i risultati di questa tornata di amministrative. Le forze di opposizione, dove sono andate insieme, hanno vinto al primo turno: una conferma a Ravenna e un ribaltamento a Genova, dove Silvia Salis ha sconfitto l’erede di Marco Bucci, il vicesindaco Pietro Piciocchi. Altrove, negli altri due capoluoghi al voto e cioè Matera e Taranto, il centrosinistra si è presentato diviso ed è stato condannato al ballottaggio. Al di là dei tatticismi, il sentiment dalle parti del Nazareno è ottimista. “Se andiamo insieme”, è il ragionamento suffragato dagli ultimi dati, “possiamo mandare a casa Giorgia Meloni tra due anni”. Peccato che la coalizione di sinistra non sia tale nemmeno a livello terminologico. “Il cemento è sempre l’avversione alla destra, ma non c’è più un Silvio Berlusconi e su quasi tutti i temi non vanno d’accordo”, sintetizza Orsina.
Politologo dell’Università Luiss, Orsina è scettico sull’ottimismo che ruota attorno al campo largo: “Parliamo di uno spin giornalistico”. I trionfi locali non bastano. “Le vittorie a Genova e Ravenna alimentano lo spin, ma lo spin rimane tale”. Il professore approfondisce: “Perché la coalizione di sinistra sia competitiva ce ne vuole e in due anni e mezzo di governo Meloni il campo largo non ha fatto passi avanti”. Anche a Genova la sinistra ha vinto “con condizioni straordinarie e andando tutti insieme”. Caratteristiche difficilmente replicabili su scala nazionale. “Tolto il consolidamento di Schlein alla guida dal Pd, non è ancora chiaro il rapporto con i 5 Stelle e i riformisti come Carlo Calenda in questo schema sono ancora più alienati”.
Il campo largo è diviso su diversi dossier: difficile far combaciare le idee economiche di Calenda e Renzi con Alleanza Verdi e Sinistra, ancora peggio ragionare “di lavoro, visto che con i referendum si sono spaccati persino lì, o di politica intenzionale”. Per il politologo il vero ostacolo di questa unione non sono i leader, ma l’elettorato: “Gli elettori di centrosinistra valorizzano le proprie differenze e farle confluire in un’unica piattaforma non è facile”. Soprattutto, specifica, “con due estremità del blocco fortemente incompatibili”.
Il partito di Giuseppe Conte è “l’elemento più disturbante” per arrivare all’alleanza formale, perché ha un elettorato “più caotico”: “I 5 Stelle nascono contro il Pd”, ricorda Orsina. E a chi invoca un ritorno all’Ulivo, il partito unico progressista guidato da Romano Prodi, il professore spiega che “era un’altra Italia”: “Parliamo di un mondo con Berlusconi, un panorama senza il Movimento 5 Stelle e con un leader come Prodi che si era detto disponibile”. Al tempo, le fratture a sinistra erano “tra radicali e moderati, ma l’unione era aiutata dalla tradizione comunista dell’unità”. A quelle divisioni oggi si sovrappone “una frattura tra movimentisti e istituzionali, che peraltro il Pd di Schlein ha introiettato in sé”.
Per un nuovo Ulivo mancano lo spirito unitario e il leader: “Conte e Schlein sono due candidati premier e non esiste una terza opzione”. Un moderato è escluso perché “sono entrambi radicali”. Allora, la soluzione potrebbe essere un compromesso al ribasso. “Parliamo di una coalizione minima – dice Orsina- e cioè un patto di desistenza nei collegi uninominali, anche se non so se gli elettori se lo bevono”.
Con l’attuale sistema elettorale, il campo largo potrebbe in effetti modellarsi anche solo come patto elettorale: ai seggi assegnati con il proporzionale tutti i partiti di opposizione andrebbero divisi, mentre nei collegi uninominali si potrebbe trovare un accordo di desistenza, con un candidato unico contro la destra. È il lodo proposto mesi fa dal dem Dario Franceschini. Forse a questo guarda Orsina quando dice di credere che “l’opposizione possa fermare una nuova vittoria della destra in Parlamento, piuttosto che arrivare a una vittoria vera della sinistra”. Sicuramente, a questo “arrabatta mento un po’ ipocrita” si riferisce Polito.
L’editorialista del Corriere ricorda che a Genova “non serviva un’intesa programmatica”, guarda alla prossima sfida elettorale dove “su 5 regioni al voto l’opposizione potrebbe vincerne 4” ed è sicuro che alle politiche del 2027 il campo largo si farà. “Non c’è dubbio che questo accordo si replicherà alle elezioni nazionali”. Polito sa che l’opposizione ha grossi problemi di equilibrio e “se volete convincermi del fatto che la coalizione così fatta sia in grado di governare, dico di no”. Questo però non esclude un accordo elettorale.
“In termini numerici l’intera opposizione, se sommata, è competitiva con il centrodestra, ma in termini politici è più difficile”. Anche per Polito, l’idea di Franceschini tornerà utile: “Parliamo di una forma di acquiescenza ipocrita, ma risolverebbe grandi problemi a sinistra”. Per questo, come spiega nella video rubrica sul Corriere “Palomar”, il voto di Genova spinge la destra “ancor di più a cambiare la legge elettorale, eliminando i collegi uninominali, perché se lì le opposizioni vanno insieme vincono di più”.
Anche con la vecchia legge, però, l’escamotage elettorale potrebbe non bastare, ma “nasconderebbe i problemi”. Non quello della leadership, anche se per Polito sarebbe risolvibile “con le primarie, dove non è detto che Conte perda”. E poi il Pd ha posizioni programmatiche “inconciliabili fino a un certo punto” con 5S e Avs: “Sulle armi, Schlein ha già espresso posizioni più vicine di Avs e 5s”. La storia del Pd, però, è un’altra: europeismo, atlantismo, senso delle istituzioni. “Sì, ma stanno già votando contro il JobsAct e ormai sono un altro partito: il Pds, partito di Schlein”. Per quanto riguarda le divergenze tra movimentisti e renziani, Polito è sicuro che “Renzi andrà felice ovunque lo porteranno”, mentre per Calenda è “più complicato, ma con una nuova legge elettorale che obbliga alle coalizioni anche lui sarebbe obbligato” ad accettare l’apparentamento.
Anche per Polito il problema del campo largo sono gli elettori, troppo distanti su troppi temi. Non tornerà l’Ulivo, che “non c’entra nulla”, mentre il paragone con l’Unione che vinse le politiche del 2006 regge, “anche se si sfasciò tutto nel giro di due anni”. Insomma, il “campo largo per definizione non può essere una proposta politica, perché non ha nessun credito di governo, ma sono certo che lo faranno”. Più per la legge elettorale, che per le recenti vittorie locali. Come ricorda Marcello Sorgi oggi su La Stampa, i trionfi cittadini potrebbero contare ben poco: “Le amministrative del’93, con la grande vittoria popolare dei sindaci democratici”, furono “l’anticamera del trionfo di Berlusconi del ’94”.
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