Povera Schlein. Era più facile battere Berlusconi che Meloni
Cinque motivi per cui lei è più solida di lui: il sostegno dei media (incredibile ma vero), l’establishment, l’opposizione interna eccetera. E tra l’altro non si capisce da che cattedra i predecessori diano lezioni alla segretaria.
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Non fosse che per la veneranda età di molti ai quali ci si rivolge, si potrebbe ribattere, ai reduci di mille battaglie uliviste e renziane prodighi di consigli a Elly Schlein, “medice cura te ipsum”.
Come ricordava un pezzo di Alfonso Raimo qui – e ora alla lista bisogna aggiungere pure Achille Occhetto! –, la stagione ulivista-prodiana e poi quella renziana da tutto è stata caratterizzata tranne che dall’unità della sinistra, prima nell’opposizione e poi nell’azione di governo.
Oltre alla disunità, non bisogna mai dimenticare che lo schieramento progressista fu, nella storia, tutt’altro che prodigo di vittorie. Se, nella cosiddetta Seconda Repubblica, vincere le elezioni significava consentire alla propria alleanza di disporre di maggioranza alla Camera e al Senato, le uniche due sono state quelle di Romano Prodi, nel 1996 e dieci anni dopo.
Con alcuni caveat, però, non marginali. Nel primo caso l’Ulivo vinse grazie alla Lega, che corse autonomamente, e che in Lombardia e in Veneto impedì a moltissimi candidati del centrodestra berlusconiano di essere eletti. Una volta vinto, poi, l’Ulivo fu talmente unito che già pochi mesi dopo Prodi rischiò di cadere, perché la coalizione non disponeva realmente della maggioranza, se non con i voti di Rifondazione comunista, che dell’alleanza ulivista non faceva parte. E comunque Prodi si dimise, anzi fu sfiduciato, solo a due anni dalla storica impresa del 1996. La seconda volta, dieci anni dopo, fu in realtà una semi-vittoria, di pochi voti di scarto al Senato e, quanto a coerenza dei programmi, il campo largo al confronto dell’Unione è una falange compatta. E anche allora Prodi andò a casa quasi subito.
Tutte le altre volte, lo schieramento progressista ha avuto bisogno, quando ha governato, di transfughi dell’opposizione di centro-destra: così gli esecutivi di Massimo D’Alema e Giuliano Amato dal 1998 al 2001 e quelli di Matteo Renzi e di Paolo Gentiloni dal 2014 al 2018, oppure è stato presente in governi di unità nazionale, in cui i progressisti erano alleati con Berlusconi: Enrico Letta, Mario Draghi e, di fatto, Mario Monti. Più un governo, il Conte II, fianco a fianco con quelli che, fino a poche settimane prima, li chiamavano “il partito di Bibbiano”.
Insomma, un palmares piuttosto deludente: non esattamente dei Sinner della politica, piuttosto dei Comunardo Niccolai, il mitico difensore del Cagliari tra il 1967 e il 1976, passato alla storia per i più bei autogol della storia.
È quindi abbastanza curioso che, oggi, molti di loro dispensino a Schlein consigli su come vincere. Anche perché, per quanto possa sembrare curioso, battere Giorgia Meloni è molto più complicato che sconfiggere Berlusconi.
Il Cavaliere era molto più entrato nell’immaginario e nell’inconscio degli italiani di Meloni, e se questo arrecò dei vantaggi, perché gli elettori fidelizzati e anzi fideistici che si riconoscevano in lui erano molto più resilienti, al contempo gli odiatori veri, quelli che davvero di notte sognavano di uccidere Berlusconi, erano molto più numerosi e motivati. Il Cavaliere disponeva di schiere di persone pronte a morire per lui (ma per fortuna non ve ne fu bisogno) mentre, probabilmente, neppure il più fanatico tesserato di FdI sarebbe pronto a dare la vita per Giorgia. Ed è meglio così, per il paese ma anche per Meloni, che infatti si trova assai meno demonizzata di Berlusconi, al di là del vittimismo di facciata.
In secondo luogo, per quanto possa apparire paradossale, Berlusconi godeva di un sostegno mediatico meno ferreo di quello che circonda Meloni, pur essendo il Cavaliere di fatto a capo di tutte le tv private (allora non c’era La 7). La Rai il centrodestra l’aveva certo occupata, ma Michele Santoro, che peraltro aveva lavorato anche per Mediaset, era una macchina da guerra in confronto, nella tv pubblica, oggi al solo, pur eroico, Sigfrido Ranucci.
A dirigere il Tg 1 c’erano, nei diversi anni, Carlo Rossella e Augusto Minzolini e, fino a un certo punto, il Tg5 Enrico Mentana: non esattamente dei giornalisti servi, anzi. Quanto alla carta stampata, a parte il Giornale, e neppure sempre (dipendeva da chi lo dirigeva), tutti gli altri grandi quotidiani erano assai critici verso i governi di centrodestra, come dovrebbe sempre essere la stampa. Oggi, solo i media del gruppo Gedi (tra cui, come sanno tutti, c’è pure questa testata), il Fatto quotidiano, più altri valorosi, ma piccoli, quotidiani (Domani, Manifesto, Unità) tengono la barra dritta. Ma vogliamo confrontare i dati di vendita dei giornali del periodo 1994-2013 con quelli di oggi? Meglio non farlo, per carità di patria.
In terzo luogo, la coalizione di Berlusconi è sempre stata molto divisa al governo, tanto che il suo primo governo cadde proprio perché la Lega ne uscì. In seguito, furono le forze centriste di Pier Ferdinando Casini e di Marco Follini, poi quelle di destra di Gianfranco Fini, a pungere quotidianamente nel fianco Berlusconi. Costringendolo più volte a ritirare le proprie proposte, nonostante l’enorme divario elettorale tra Forza Italia e i centristi, ma anche tra i primi e Alleanza nazionale. In confronto, oggi, i malumori di Matteo Salvini e i lievissimi distinguo di Antonio Tajani sono acqua fresca.
Infine, Berlusconi era assai divisivo anche per, mi si passi per rapidità il termine, l’establishment. Dal “partito romano”, cioè dalla coalizione di interessi, poteri, corporazioni, cordate, amicizie, che legano burocrazia, apparati di Stato (italiano ma anche vaticano), imprenditoria sussidiata, gerarchie di determinati sindacati, professioni liberali (tra virgolette soprattutto liberali), Berlusconi, il bauscia milanese anzi con residenza in Brianza, era visto come un alieno (un po’, con assai minor potere, qualche anno prima il milanese Bettino Craxi), su cui poggiare e da sostenere, ovviamente, ma con circospezione, e tenendo sempre aperta un’altra possibilità. Il “partito romano” in tal senso si era poggiato, per decenni, sulla Dc, e non a caso gli esponenti del primo, dopo la fine della Balena Bianca, quando dovevano guardare a “sinistra” preferivano un ex scudocrociato: Prodi, Letta, Renzi. E oggi, se fossero proprio costretti a spostarsi, preferirebbero certo Giuseppe Conte a Schlein. Ma non ci sarà bisogno, perché, almeno per ora, assai più di chiunque altro nel passato recente, Giorgia per loro è la nuova Giulia (da Andreotti, ovviamente)
Last but not least, con il suo stile di vita, barocco, esibizionista e libertino, Berlusconi solleticava la classica ipocrisia nazionale: per cui, di fronte al peccatore, si chiudono tutti gli occhi finché questo ci serve (e, magari, ci elargisce denaro) ma, quando questi comincia a traballare, lo si addita al rogo. Quanto alla ricchezza esibita, in un paese cattolico essa è sempre un’arma a doppio taglio: fonte di ammirazione, e quindi di voti, ma anche di ostilità e di odio autentico. Mentre, da questo punto di vista, Meloni è irreprensibile, quasi una Santa o, se si vuole, una Vergine guerriera.
Batterla non sarà facile, ma difficilmente ci sarebbero riusciti gli Occhetto, i Prodi, i Renzi e i Gentiloni dei tempi d’oro. Che poi, come si è visto, così dorati non erano.
di Marco Gervasoni su Huffpost
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