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Le realtà virtuali. Vita immaginifica della sinistra

Reazioni estrose alla sconfitta del referendum: il Pd sperava di prendere più Sì di quanti voti prese Meloni nel ’22 (ma che c’entra?).

Le realtà virtuali. Vita immaginifica della sinistra

Tanto basta per non prendere atto che il tema del lavoro non è trainante, e che sinistra e sindacato non rappresentano la maggioranza del Paese. Le stesse allucinazioni autoassolutorie che hanno fatto contare 300mila inesistenti manifestanti pro Gaza. Urge il ritorno della realtà

C’è qualcosa di nuovo, anzi di nuovissimo a sinistra: un raccolto della realtà che oramai prescinde dalla realtà. Le reazioni a caldo dei promotori dei referendum alla bocciatura elettorale sono “costruite” attorno a conteggi in alcuni casi capziosi, attorno ad una “second life”, una realtà parziale in gran parte immaginata per rassicurare i propri sostenitori. La regola elettorale dei referendum è chiara e accettata da tutti da 79 anni, è fatta di Sì, di No e di quorum e nel corso dei decenni i tanti vincenti e i tanti perdenti sono sempre stati pronti a riconoscere le sconfitte: Re Umberto se ne andò subito dall’Italia, Matteo Renzi si dimise subito da presidente del Consiglio.

Ma stavolta gli argomenti scovati a sinistra sono originali. Anzitutto perché introducono un nuovo conteggio, inedito. Non lo fa il capo della Cgil, Maurizio Landini, che si limita, si fa per dire, ad affermare che “in Italia c’è una crisi democratica” e lui, che guida un’organizzazione con cinque milioni di iscritti, preferisce guardare dall’altra parte della barricata.

Ma le argomentazioni più immaginifiche sono venute dal Pd e dai loro alleati. Da questo ampio fronte si ripete che si può cantare vittoria poiché alla fine per i Sì ai referendum avranno votato più elettori di quelli (12 milioni e 300mila) che diedero il suffragio al centro-destra nel 2022, tre anni fa. Una teoria da verificare alla fine dei conteggi. Ma una teoria da realtà immaginaria, quella che Donald Trump usa sempre più spesso. Anche entrando in questo conteggio alternativo, che mette sullo stesso piano elezioni politiche e referendum, i promotori si appropriano di tutti gli elettori, come fossero cosa loro. Un’appropriazione politicamente indebita. Ma soprattutto è un’inversione di senso del referendum, messi in campo – non per vincerli – ma come semplice motivazione dei propri elettori.

Il 9 giugno 2025 rischia di entrare nella storia politica italiana per questo travisamento del risultato referendario, anche se immagini destinate a raccontare con altrettanta precisione la realtà delle opposizioni in Italia resteranno a lungo quelle rilanciate dal palco di piazza San Giovanni, il 7 giugno.

Quel giorno i tre capi del Campo “stretto” hanno salutato il loro popolo con due messaggi lapidari: il governo è complice dei crimini, noi siamo tantissimi e vinceremo. Certo, la politica convive sempre con una dose di patos ma l’annuncio dal palco (“Siamo oltre trecentomila”) andava oltre ogni ragionevole esagerazione: moltiplicava per venti il numero effettivo dei presenti. Può sembrare una innocente bugia e invece da San Giovanni si anticipava il tono di quel che sta accadendo in queste ore.

Dalla piazza per Gaza si ripeteva quel che da tempo è diventato un refrain. Primo: gli altri hanno sempre torto marcio, sono sempre in malafede. Secondo: noi non abbiamo mai nulla da rimproverarci e se non abbiamo raggiunto il risultato massimo, la colpa è di qualche macchinazione.

E se dal racconto dalla politica si passa alla politica, è difficile evadere dalla lettura elementare dei dati referendari. Che restituiscono due messaggi politici e sociali, chiari e incontestabili: il grande tema del lavoro, trattato a “quesiti”, non è unificante e trainante nel Paese. Secondo: i partiti di opposizione e la Cgil non hanno la rappresentanza della maggioranza del Paese: al loro appello non hanno risposto 36 milioni di italiani. I grandi partiti della Prima Repubblica, a partire dal Pci, dopo le sconfitte analizzavano per settimane dati e analisi. Anche a quei tempi l’ipocrisia era tanta. Ma allora cercar scuse pretestuose non portava bene.

di Fabio Martini su HuffPost

 

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