Anno: XXVI - Numero 124    
Mercoledì 25 Giugno 2025 ore 13:45
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Quando la sofferenza supera la pena, il diritto penale perde senso

L’avvocato Vittorio Manes commenta il comportamento del Pm che “chiede l’archiviazione della donna che ha provocato gravi lesioni al figlio accidentalmente”.

Quando la sofferenza supera la pena, il diritto penale perde senso

Intervista al professore avvocato Vittorio Manes: «Punire in questi casi non solo sarebbe una duplicazione della sofferenza, ma equivarrebbe a infliggere una pena inumana, in violazione dei principi costituzionali di civiltà»

Nel diritto penale, la funzione della pena è tradizionalmente legata alla deterrenza, alla rieducazione e alla retribuzione. Tuttavia, in alcuni casi, come quello di una madre che investe accidentalmente il proprio figlio, la tragedia in sé può già rappresentare una forma di punizione insostenibile. Ed è per questo, come vi ha raccontato ieri il Dubbio in esclusiva, che il pm Paolo Storari ha chiesto l’archiviazione di una donna che, investendo il figlio di soli 18 mesi, gli ha provocato lesioni gravissime. La donna, ha evidenziato in buona sostanza Storari, sta già scontando un fine pena mai. In situazioni del genere, la domanda che emerge è: ha ancora senso infliggere una pena, se l’autore del reato ha già subito una sofferenza tale da superare ogni possibile condanna civile? Questa riflessione pone al centro il principio di umanità della pena, un tema che, purtroppo, non sempre trova il giusto spazio nel dibattito giuridico e politico. A parlarne con noi è l’avvocato professore Vittorio Manes, ordinario di diritto penale presso l’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, che Storari ha citato nella sua richiesta.
Professore, il pm Paolo Storari ha chiesto l’archiviazione per una madre che ha investito il figlio in un tragico incidente domestico, richiamando il principio secondo cui “una pena sarebbe inumana”, avendo già l’indagato subito una “poena naturalis”: cosa significa esattamente?
Vi sono alcune vicende, drammatiche per gli stessi protagonisti, in cui l’autore del reato subisce e patisce effetti devastanti come conseguenza della condotta colposa realizzata, come certamente sono la morte o le lesioni gravissime cagionate a un figlio, in un incidente stradale o in una vicenda come quella del caso concreto. In questo caso, la gravosità e l’afflittività della “pena naturale” patita rende del tutto ingiustificata ed insensata l’irrogazione della “pena civile”, ossia quella prevista dal codice penale per il reato commesso.

Lei scrive che lo Stato non dovrebbe mai superare quel confine di civiltà che è segnato dall’umanità del castigo. Quando il dolore dell’imputato supera quello che l’ordinamento potrebbe infliggere, cosa resta della funzione della pena?
Non resta nulla, perché il volume di senso della sanzione giuridica è già occupato ed ampiamente sopravanzato dalla afflizione “naturale” sofferta, dalla poena naturalis appunto. In casi simili, punire si tradurrebbe non solo in una assurda duplicazione della pena, ma nell’inflizione di una pena autenticamente “inumana”, come tale in chiara violazione del primo cardine costituzionale previsto nell’articolo 27, comma terzo, Costituzione. Peraltro, l’irrogazione della pena risulterebbe anche del tutto ingiustificata nella prospettiva della finalità rieducativa, perché in vicende di questo tipo, la commissione del delitto non rappresenta solo l’inizio della sua espiazione, ma anche l’esaurimento della stessa funzione della pena che potrebbe essere applicata. In casi simili, d’altronde, quale esigenza di risocializzazione può attendersi dalla irrogazione della sanzione?
Il rischio, secondo alcuni, è che il diritto penale perda la sua funzione di deterrenza e retribuzione. Come replica?
La deterrenza ha ben poco senso al cospetto di vicende dove la tragica fatalità del destino ha l’autore come prima vittima, e la retribuzione ancora meno, per le ragioni dette, che rendono persino illogico e disumano il malum passionis. Punire, dunque, rappresenterebbe solo l’ossequio formale ad una legge penale che nel caso concreto risulta profondamente ingiusta e irrazionale. E una eventuale pena statale – come scrive il dottor Storari nella sua richiesta di archiviazione – “non avrebbe alcuna funzione, qualunque sia la teorica a cui ci si ritenga di ispirare”.
Il principio di umanità, a suo avviso, ha avuto uno sviluppo troppo marginale nella giurisprudenza costituzionale italiana? E cosa servirebbe per renderlo un criterio guida, non solo un limite estremo?
La mia impressione è che questo principio fondamentale non sia stato ancora compiutamente valorizzato, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. Si è data – giustamente – molta importanza alla finalità rieducativa della pena, ma il primo cardine di civiltà è rappresentato dal divieto di pene contrarie al senso di umanità. A mio sommesso avviso, anche la Corte costituzionale – che pur ha dimostrato una affilata sensibilità per questi aspetti, anche di recente, se solo si pensa alla sentenza sulla cosiddetta affettività in carcere – potrebbe e dovrebbe sviluppare ancor di più la sua intrinseca capacità generativa, e trarne tutti i corollari e le implicazioni assiologiche che possono derivarne. E sono moltissime, sin dalla fase della individuazione del catalogo astratto delle pene o dei trattamenti inumani: basti pensare alla pena detentiva perpetua o alla castrazione chimica, di cui spesso si sente parlare, ovvero, in fase esecutiva, al regime del “carcere duro” previsto dall’articolo 41 bis, e così via.
Secondo lei, in casi come questo, sarebbe preferibile un intervento interpretativo (come nel caso Storari) o una vera e propria riforma legislativa che introduca un’esimente esplicita per fatti “naturalmente scontati”?
Credo che la soluzione sempre preferibile sia quella legislativa, ed anche la soluzione individuata nella richiesta di archiviazione – quella che passa dall’articolo 131 bis c.p. – mi pare francamente non facile da percorrere. Proprio per questo, del resto, lo stesso pubblico ministero – ben consapevole della torsione ermeneutica che la prima soluzione implica – ha prospettato come alternativa la proposizione di una questione di legittimità costituzionale, affidandola alla sensibilità e alla perizia del giudice, che dovrà valutarla ed eventualmente sollevarla nei termini più adeguati. Questione certamente complessa, specie nella individuazione del petitum che si chiede alla Corte, ma strada certamente meritevole di essere percorsa.
In controluce a questa vicenda si intravede anche un’idea più ampia di giustizia: non più afflittiva, ma proporzionata e umana. Possiamo sperare che diventi parte del diritto penale del futuro?
Possiamo e dobbiamo sperarlo. Anche se il lungo cammino di civiltà compiuto dal diritto e dalla giustizia penale nel corso dei secoli, che via via ha cercato di emanciparlo dalla violenza brutale dei supplizi e dalla cieca vendetta del taglione, a volte sembra interrompersi, nell’attuale temperie del punitivismo e del giustizialismo imperante. E quindi l’auspicio è che le garanzie fondamentali in materia penale e i principi di civiltà del diritto – come l’umanità delle pene – recuperino la centralità e il vigore che meritano, in un futuro che si spera prossimo. Ma il miglior modo di prevedere il futuro è sempre quello di cominciare a costruirlo.

Simona Musco su il Dubbio

 

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