Anno: XXVI - Numero 206    
Lunedì 27 Ottobre 2025 ore 13:15
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Dopo una sentenza della Cassazione mi sono convinto che separare le carriere è doveroso

L’avvocato Fanfani spiega perché la sola terzietà del giudice non basta: il processo resta squilibrato se accusa e difesa non sono davvero sullo stesso piano.

Dopo una sentenza della Cassazione mi sono convinto che separare le carriere è doveroso

Dal mio angolo visuale – quello di un avvocato che ogni giorno frequenta le aule di giustizia – ho a lungo considerato la separazione delle carriere poco più che una crociata ideologica. Una bandiera identitaria, certo, ma distante dai problemi concreti della giurisdizione. Pensavo, penso – e ne ricevo conferma quotidiana – che il primo e vero argine alla diseguaglianza tra le parti risieda nella schiena dritta del giudice. Nella sua capacità di distinguere, senza indulgenze, tra teoremi e prove; nella sua disponibilità ad ascoltare, senza precomprensioni, né condizionamenti, le ragioni dell’una e dell’altra parte; nella sua lealtà esclusiva alla forza delle argomentazioni.

Ne ero, e ne resto tuttora, sinceramente convinto. Ma da tempo, oramai, sono altrettanto persuaso che ciò non basti. Che non si possa affidare alla serietà del singolo giudice la piena attuazione del giusto processo. Che occorra una riforma di sistema.

Devo ammettere che non erano riuscite a convincermi fino in fondo della concretezza e dell’attualità del tema neppure le più profonde e autorevoli argomentazioni provenienti dalla dottrina.

È bastata invece la lettura di una sentenza – una lettura amara, in un giorno piovoso di fine maggio – a farmi aprire gli occhi. Mi riferisco alla sentenza tristemente nota (n. 16458 del 2020) con cui la Corte di cassazione ha affermato, senza smentite successive, che la consulenza tecnica del pubblico ministero “riveste una valenza probatoria non comparabile” a quella della difesa. Valenza probatoria non comparabile. Quella frase ha segnato un punto di non ritorno, poiché ha dato forma giuridica, ufficiale, a una gerarchia processuale tra chi accusa e chi difende.

E allora, ci chiedemmo in molti – attoniti – che ne è dell’art. 111 della Costituzione? Del contraddittorio? Della parità delle armi? Del giudice terzo? E, più concretamente: a che serve incaricare i migliori consulenti, far loro studiare a fondo le carte, individuare e illustrare in udienza le argomentazioni più fondate, se la parola del consulente della procura è ritenuta – di per sé – più credibile?

Quella pronuncia, improvvida e rivelatrice, si fondava sull’art. 358 c. p. p. – la norma che impone al Pm di ricercare anche elementi favorevoli all’indagato – da cui si ricavava l’idea di un Pm “non portatore di interessi di parte”, e dunque detentore di un sapere tecnico più neutro, più attendibile, più credibile.

Una lettura che sovverte il senso della norma: l’art. 358, nato come garanzia dell’indagato, diventa la leva per sancire uno squilibrio naturale tra accusa e difesa.

Sia detto per inciso: il 358 è norma di metodo, non di status. Impone completezza investigativa, non imparzialità. Il Pm cerca anche i dati favorevoli non per garantismo, ma per cautela: ignorarli espone a un’accusa fragile. Punto.

E però, cosa c’entra una errata interpretazione del codice con una riforma costituzionale che non tocca il codice di rito? C’entra, eccome. Perché il problema non è nel codice, ma nello sguardo di chi lo applica.

E l’attuale assetto istituzionale consente – se non addirittura incoraggia – letture distorte come quella contenuta nella pronuncia richiamata, che eleva il pubblico ministero a “parte- imparziale”, a para- giudice, cui riconoscere, perlomeno in partenza, maggiore credibilità.

Così accade che anche il suo consulente tecnico – per una sorta di osmosi – venga percepito come un soggetto neutrale, quasi fosse un perito del giudice.

Ed è qui che il nodo si stringe: finché giudici e pubblici ministeri resteranno uniti nello stesso ordine, formati insieme, valutati insieme, a certe condizioni intercambiabili nelle funzioni, sarà inevitabile che la voce dell’accusa – e dei suoi ausiliari – venga accolta con fiducia, trattata come più autorevole per natura. E che, prima o poi, qualcuno, in qualche sentenza, torni a rispolverare la tesi della valenza probatoria “non comparabile”.

Separare le carriere, allora, non è solo un disegno di architettura istituzionale. È un correttivo culturale. Serve a orientare e uniformare la lettura del codice all’art. 111 Cost., rimuovendo quella pretesa imparzialità del Pm che nessuna norma gli attribuisce e che chiunque frequenti le aule di giustizia sa essere una finzione, nobile forse, ma pur sempre finzione.

Separare le carriere significa restituire pieno senso al concetto di parte, che partecipa al processo in condizione di parità. La riforma costituzionale in corso per quanto perfettibile – ci sembra muoversi in questa direzione: verso un sistema realmente accusatorio, in cui il giudice è terzo, le parti sono pari, e le prove si valutano per ciò che sono, non per chi le porta.

Avv. Luca Fanfani su Il Dubbio

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