Pm e giudici separati in casa: a Milano la riforma sembra già realtà
Quanto sta avvenendo attorno al processo parallelo sul caso Pifferi dice molto del clima che si respira all’interno della magistratura, che si scopre fragile e divisa.
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Un giudice che non piace alla procura. Un pm che ne chiede l’astensione. Un presidente di Tribunale che respinge la richiesta, accusando il collega di pregiudizio. A margine, un comunicato dell’Anm, una delibera dei penalisti, una giornata di sciopero. Il tutto attorno a un processo parallelo al caso Pifferi, con avvocati e consulenti finiti sotto indagine. Ma il nodo vero non è il fascicolo: è il clima.
A Milano, la separazione delle carriere non è (solo) una proposta di riforma. È un fatto. Culturale, ancor prima che giuridico. I magistrati non si parlano più, si diffidano. E quando lo fanno, si accusano a vicenda: di parzialità, di pregiudizio, perfino di “interferenze” nel processo. Non tra avvocati e pm — com’era un tempo — ma tra giudicanti e requirenti. È un ribaltamento silenzioso, ma profondo.
Il gup Roberto Crepaldi, secondo il pm Francesco De Tommasi, non sarebbe abbastanza “terzo” da poter giudicare l’avvocata Alessia Pontenani e tutti gli altri professionisti indagati nel filone parallelo al processo Pifferi. Troppo “amico” degli avvocati, forse. Non per ciò che ha detto in aula, ma per aver contribuito — da membro della Giunta Anm di Milano — a un comunicato a tutela della funzione difensiva. Un testo generico, secondo il Tribunale. Si tratta del comunicato stampa diffuso il 13 febbraio 2024, un testo col quale il sindacato delle toghe aveva evidenziato la necessità di «garantire il sereno svolgimento dei procedimenti penali in tutte le sue fasi, anche endoprocedimentali», ribadendo «la centralità, per tutta la magistratura, del valore della funzione difensiva, in ossequio a quanto previsto dagli articoli 24 e 27 della Costituzione, cui quotidianamente ogni magistrato si deve impegnare, lealmente, a dare attuazione».
Per il pm, che ha condiviso la decisione con il procuratore Marcello Viola, Crepaldi «ha formulato pubblicamente» delle «critiche sull’azione» della procura e «sulla piena legittimità e correttezza delle indagini». E a rafforzare la convinzione di De Tommasi ci sono anche le dichiarazioni del pm Leonardo Lesti, allora presidente dell’Anm Milano, che nel corso di un dibattito con la presidente dei penalisti milanesi Valentina Alberta avrebbe confermato tutto e perfino paventato «la possibilità che nei confronti» di De Tommasi «potesse essere avviato un procedimento disciplinare», cosa mai verificatasi. Parole che, secondo la procura, metterebbero in discussione «l’obiettività e serenità che devono caratterizzare la funzione del giudice» che «possono apparire compromesse» da una «valutazione formulata, pur se superficialmente» fuori dal processo.
Il presidente del Tribunale, Fabio Roia, ha però respinto la richiesta, rigirando contro De Tommasi la sua stessa critica: sarebbe lui ad usare argomentazioni «suggestive e frutto di preconcetti», che non possono cancellare «il principio costituzionale del rispetto del giudice naturale». Crepaldi non avrebbe «dato consigli o manifestato il suo parere» sull’indagine a carico di Pontenani. Anche perché la nota dell’Anm era un «documento generico», riguardante «fatti diversi – il processo a carico di Pifferi, ndr -, anche se evidentemente connessi» all’indagine sul suo difensore. La sua «imparzialità», dunque, non sarebbe in discussione.
Una vicenda «irrituale», aggiunge Roia, come anche la Giunta milanese dell’Anm, che forse proprio prevedendo il rischio di legittimare una separazione tra i due ruoli «esprime la propria preoccupazione per il pericolo di cui l’assunto sotteso a tale istanza si fa portatore». Ribadendo «con forza che una delibera collegiale di tal specie non deve interpretarsi come una indebita manifestazione del parere del giudicante fuori dall’esercizio delle funzioni giudiziarie», perché ciò «metterebbe a rischio tanto la libertà di manifestazione del pensiero, quanto la libertà di associazione (e tutto ciò che ne consegue), nonché l’unità della magistratura tutta». Un rischio che il sindacato delle toghe, evidentemente, non vuole correre.
Il risultato è un paradosso: la toga che firma un documento a tutela del processo viene invitata a lasciare il processo stesso. In nome della “serenità”, si mette in dubbio l’equilibrio di chi dovrebbe garantirla. E il principio del giudice naturale, anziché baluardo, diventa bersaglio. La magistratura si scopre fragile. Divisa. A tratti corporativa, ma anche sospettosa. Se non ci si fida tra toghe, come si può chiedere ai cittadini di farlo?
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