Anno: XXVI - Numero 111    
Venerdì 6 Giugno 2025 ore 13:45
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Giovani che fuggono. Ma soprattutto giovani che non arrivano

Il governatore di Bankitalia Panetta mette in allarme sul deflusso dei cervelli. Ma ovunque chi è istruito tende ad andare all’estero.

Giovani che fuggono. Ma soprattutto giovani che non arrivano

Il nostro problema sono gli afflussi: da noi arrivano pochi stranieri laureati.

In prossimità della ricorrenza della nostra principale festa nazionale, nelle sue consuete considerazioni finali di fine maggio il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta ha posto l’accento sulla ripresa vigorosa del deflusso di cervelli italiani verso l’estero. L’allarme è risuonato tanto forte da guadagnarsi articoli sulla stampa estera, a partire dal Financial Times, con successivi effetti di retroazione sul dibattito italiano.

In realtà, è bene dirsi che ragionare sui deflussi senza interrogarsi sugli afflussi e senza mettere in relazione queste variabili alla più generale questione del capitale umano e dei trend demografici conduce fatalmente a una visione palesemente distorta della realtà. Sarebbe stato come disperarsi dei tre gol presi dall’Italia contro la Germania nella mitica semifinale dei Mondiali del 1970 senza considerare i quattro realizzati da Boninsegna, Burgnich, Riva e Rivera. O i due del Brasile a Spagna ’82 senza la tripletta di Paolo Rossi. Ma ecco che già vedo molti sollevarsi di fronte a un paragone tanto ardito perché ad andare via è la migliore gioventù italica mentre ad arrivare sarebbe tutt’al più gente che di italiano nel sangue ha poco o nulla (al di là di qualche oriundo).

In realtà, come in tutte le questioni di policy sarebbe meglio usare anche nel giorno della festa nazionale, anzi ancora di più in questo, un approccio razionale. È senz’altro vero che ci sono più italiani che emigrano, almeno 700 mila negli ultimi dieci anni e 156 mila nel 2024, perché credono di avere maggiori opportunità fuori dal nostro Paese e questo può comprensibilmente rappresentare una fonte di dispiacere mista a preoccupazione. Sia a livello macro, la perdita di prezioso capitale umano sul quale ha investito il sistema d’istruzione, che micro, il fratello, il figlio o l’amico che improvvisamente decide di traslocare a migliaia di chilometri di distanza. Tuttavia, questo è un modo di vedere le cose che non fa i conti con la realtà.

Al di là delle effettive opportunità che offre l’Italia alle giovani generazioni, il desiderio di uscire dai confini del proprio mondo è un istinto del tutto naturale, che cresce all’aumentare della conoscenza delle lingue, del livello di istruzione e apertura al mondo. Non è un caso che ad emigrare all’estero, specie nelle fasce più istruite, siano i giovani del Nord Italia, quelli che in teoria avrebbero le migliori occasioni rimanendo in patria, e che mentre nel 2014 tra chi espatriava solo il 31,4% era laureato (quota che era comunque decisamente superiore rispetto al meno del 20% di popolazione adulta laureata di allora) nel 2023 la percentuale aveva raggiunto il 50,9% (più del doppio rispetto alla quota di titolo di studio terziario della popolazione di riferimento).

Ma anche guardando a cosa succede oltre i nostri confini i dati ci dicono che la propensione a uscire dalle proprie frontiere è estremamente elevata, soprattutto nella parte di popolazione più istruita. Il 48% dei tedeschi nati in Germania ma residenti all’estero ha almeno un titolo di laurea, contro il 29% dei propri connazionali residenti nel proprio Paese di origine. Da dove ben 150.000 persone hanno preso le valigie nel 2022 per recarsi in un altro Paese. La differenza con la Germania e con gran parte dei Paesi dell’Europa occidentale è piuttosto un’altra, come pure la relazione del governatore della Banca d’Italia mostra chiaramente ma che è stata del tutto trascurata nel dibattito pubblico di questi ultimi venti anni, a destra come anche a sinistra votato quasi ossessivamente al rientro dei cervelli e a spaccarsi a prescindere tra favorevoli e contrari all’immigrazione, su basi esclusivamente identitarie.

Tra i nostri immigrati il tasso di istruzione è di gran lunga il più basso dei Paesi G7 (e non solo). In Italia, solo il 14,8% della popolazione residente tra i 25 e i 64 anni (dunque in età lavorativa) nata all’estero è laureata contro il 29,2% della Spagna, il 29,8% della Germania, il 36,3% della Francia e il 40,6% dell’Olanda. Per non parlare dell’oltre 70% di Canada e Regno Unito o del 45% degli Stati Uniti. L’urgenza di fare qualcosa al riguardo è ulteriormente accentuata dalla trasformazione demografica in atto. È infatti vero che il numero dei laureati ha raggiunto il suo massimo storico nel 2023 (ultimo anno per il quale è disponibile il dato) con 385.952 lauree rilasciate (di cui all’incirca un terzo di lauree magistrali a chi aveva già conseguito il titolo triennale) ma occorre avere ben presente che il picco delle nascite è stato raggiunto in Italia nel 2008 con 576 mila nuove nascite e da allora si è aperto un trend decrescente apparentemente inarrestabile che ha portato ai 370 mila nascituri del 2024.

Dunque, di fatto abbiamo una finestra di pochi anni per puntare ad evitare o quantomeno ad attutire la catastrofe annunciata derivante dalla perdita di capitale umano che subiremo per motivi demografici e per un processo di emigrazione naturale che di fatto non sarà possibile evitare (e che peraltro è destinato a salire, quantomeno in termini relativi, all’aumentare del tasso di istruzione del sistema). Nelle sue considerazioni finali, il governatore richiama la necessità di adeguare il sistema di riconoscimento dei titoli di studio e delle competenze agli standard europei. Sicuramente utile ma certamente non basta per attrarre talenti dall’estero. Andrebbe ad esempio aumentata di molto l’offerta di corsi universitari e post-universitari in lingua inglese e si dovrebbero prevedere programmi ad hoc per lavoratori qualificati che facilitino l’ingresso e la permanenza in Italia.

Oggi di fatto le uniche iniziative di attrazione di stranieri in Italia riguardano soggetti che investono nel nostro Paese e che sono tendenzialmente già molto agiati. L’iniziativa ha un suo senso (anche se rischia di essere piuttosto discriminante verso italiani che si trovano nelle stesse condizioni e che godono di un regime fiscale decisamente più sfavorevole) ma riguarda un pool di individui relativamente piccolo e di età medio-alta a uno stadio finale o quasi del proprio percorso professionale. Laddove invece la necessità principale in un Paese a bassa crescita e in pieno inverno demografico come il nostro sarebbe quella di attrarre persone qualificate che possano contribuire al rilancio della produttività del nostro Paese per una parte significativa del proprio percorso lavorativo e magari mettere su famiglia contrastando almeno in parte il declino della popolazione autoctona. Anche così, o forse soprattutto, si può parlare di identità italiana in un giorno che dovrebbe ricordare il passato per alimentarne il più possibile il futuro di fronte alle enormi sfide che ci attendono. 

di Stefano Da Empoli su HuffPost

 

 

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