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Garlasco, l’ennesimo processo mediatico che si fa beffe del dolore di chi resta

Garlasco è un palcoscenico che seduce, peccato però che su quel palco si giochi con le vite vere di persone che – con fatica, con dolore – pensavano di aver chiuso quel capitolo.

Garlasco, l’ennesimo processo mediatico che si fa beffe del dolore di chi resta

Frammenti di video rubati – o sapientemente consegnati alla stampa – sms suggestivi, reperti e un presunto supertestimone. Insomma, il circo è ripartito. Spietato e stolto come sempre. Parliamo di Garlasco, naturalmente, la “fiction” mediatico-giudiziaria che in queste ore è riesplosa sui media nazionali. E non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che parliamo di un delitto che risale all’agosto del 2007. E allora la domanda è spontanea: quanto può essere affidabile il ricordo del (presunto) supertestimone a 18 anni di distanza dai fatti? E quei reperti, cosa mai potranno dire?

Ma non è questo il problema, di certo non il nostro, semmai degli inquirenti. Il punto è che la valanga mediatica che 18 anni fa ha travolto la famiglia di Chiara Poggi e Alberto Stasi, oggi si abbatte su un nuovo “presunto colpevole” (già, nel processo mediatico il diritto è rovesciato e l’onere della prova spetta all’indagato), quell’Andrea Sempio che dieci anni fa era già stato al centro di ulteriori indagini. Accuse regolarmente archiviate dalla procura di Pavia.

Ma Garlasco è un palcoscenico che seduce. Una ribalta irresistibile per chi indaga, per chi commenta. Peccato però che su quel palco si giochi con le vite vere di persone che – con fatica, con dolore – pensavano di aver chiuso quel capitolo. Inutili gli appelli della famiglia Poggi, che implora silenzio. Che chiede di lasciare in pace, almeno ora, quelle ferite. Niente da fare: è la stampa, bellezza!

E poi c’è l’altra faccia, più scura, di questo teatro. La giustizia mediatica, infatti, non si limita a raccontare: modella, deforma, altera i lineamenti dell’inchiesta. La inquina. E celebra il processo ben prima di un rinvio a giudizio. Un processo, naturalmente, tutto sbilanciato verso l’accusa e che ammette una sola sentenza: quella di colpevolezza.

Lo sa bene Alberto Stasi che non è stato solo imputato in un’aula di tribunale.

Prima che da un magistrato è stato infatti imputato – e condannato – dai talk show, dai giornali, dalle perizie da salotto televisivo, dai plastici ricostruiti in diretta e da cronisti trasformati in criminologi improvvisati. La vita di Stasi è stata passata al setaccio e viziata da una narrazione giornalistica tutta tesa a dimostrare la sua colpevolezza, un racconto in cui un solo sguardo o un semplice gesto diventavano indizio; e la famigerata bici, e le scarpe, la camminata, il computer e ogni altro dettaglio veniva piegato alla sentenza preventiva di pubblica di condanna.

E oggi, quel medesimo tribunale – quello parallelo, senza codici né difese – ha un nuovo bersaglio. Cambiano i nomi, cambiano i volti ma la storia si ripete. Con la stessa farsesca, implacabile violenza.

Davide Varì su Il Dubbio

 

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