Anno: XXVI - Numero 202    
Martedì 21 Ottobre 2025 ore 13:25
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Chiara, cavalla pazza del grillismo

Appendino molla Conte e sputa nel piatto dove ha mangiato. Il rancore travestito da coerenza.

Chiara, cavalla pazza del grillismo

C’è sempre un momento, nella vita politica di un grillino, in cui l’indignazione personale diventa programma, la delusione privata si traveste da battaglia morale e la coerenza prende la forma di un addio plateale. È accaduto a Di Maio, a Fico, a Raggi, e ora tocca a Chiara Appendino, ex sindaca di Torino ed ex vicepresidente del Movimento 5 Stelle, che ha scelto di abbandonare Giuseppe Conte proprio alla vigilia del voto in Campania. Un tempismo da manuale del sabotaggio, una mossa che i più generosi definirebbero “coraggiosa”, ma che somiglia molto a un atto di stizza.

Appendino spiega che non è contro l’alleanza con il Partito Democratico, ma contro la “postura” con cui il Movimento ci sta dentro. Tradotto: il M5S sarebbe diventato subalterno al PD, succube delle sue strategie e dei suoi uomini, a partire da Goffredo Bettini, l’uomo che per Conte “meriterebbe un monumento”. Un’affermazione che a Chiara, evidentemente, è rimasta sullo stomaco. Difficile darle torto: in un partito nato per “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, dover ringraziare un ex funzionario del Pci può suonare come una beffa. Ma il problema non è Bettini, e forse nemmeno la postura. Il problema è Chiara Appendino.

Perché dietro la sua uscita c’è una storia di vecchi rancori mai digeriti, in particolare verso il PD torinese, che dopo la tragedia di piazza San Carlo la trattò come una paria politica. Era il 2017, e una serata di calcio si trasformò in caos: una morte, centinaia di feriti, e un processo che travolse l’immagine della giovane sindaca simbolo del “nuovo corso”. Da allora, il rapporto con i dem è stato un rosario di sospetti, delusioni e vendette. E oggi quel rancore si traveste da rivolta etica contro Conte, reo di essere troppo “democristiano”. Che poi è la cosa che, fino a ieri, era il suo principale merito: riuscire a tenere insieme ex rivoluzionari digitali e pensionati del centro sinistra.

La verità è che Appendino ha sempre avuto un problema con la disciplina di partito. A Torino, nel 2016, vinse grazie anche ai voti del centrodestra che pur di togliere di mezzo Piero Fassino si turò il naso e la votò. Da allora, però, il suo rapporto con gli alleati è stato un altalena di entusiasmi e rotture. Alla fine del mandato, i 5 Stelle torinesi la sconfessarono, il consenso evaporò e la “sindaca del cambiamento” tornò un volto tra i tanti. Quando Conte la recuperò per darle la vicepresidenza del Movimento, sembrava una seconda occasione. Invece era solo l’intervallo prima dell’ennesimo strappo.

Le dimissioni arrivano dopo un Consiglio nazionale durato sette ore, descritto dai presenti come “un processo a Chiara”. Lei conferma la sua scelta “mettendoci la faccia”, Conte la lascia andare con il sorriso di chi ha imparato che a volte perdere un dirigente rumoroso è un guadagno in tranquillità. Gli altri, da Taverna a Patuanelli, provano a ricucire, ma è tardi. La “Chiara furiosa” ha già deciso di mettersi alla finestra, forse in attesa che il prossimo inciampo elettorale apra una nuova stagione di resa dei conti.

Certo, non si può negare che l’ex sindaca di Torino abbia intuito politico. Sa che il Movimento di Conte non vola più, che la base è stanca di alleanze a geometria variabile e che il leader, nel tentativo di sembrare moderato, rischia di apparire irrilevante. Ma da qui a presentarsi come l’alternativa morale al “conteismo” ce ne corre. Anche perché, al netto delle pose da dissidente, Appendino deve ancora spiegare in cosa consista il suo progetto. Un Movimento meno subalterno? Bene. Ma più vicino a chi? Alla sinistra che non la sopporta più, o a quel centrodestra che nel 2016 la votò solo per dispetto?

Conte, dal canto suo, gioca di fino. Ringrazia pubblicamente, mantiene toni felpati, e intanto fa passare il messaggio: il Movimento non si ferma per un addio, e chi se ne va si assuma la responsabilità. Il vero obiettivo, per lui, è sopravvivere alle regionali campane senza spaccare l’alleanza con il PD. E se per farlo deve sacrificare una vicepresidente ingombrante, tanto meglio. Alla fine, è sempre la legge della politica: chi scende da cavallo prima del traguardo, non può lamentarsi se gli altri arrivano primi.

La storia di Chiara Appendino è, in fondo, quella del Movimento 5 Stelle stesso: nato per ribellarsi al sistema, finito per diventare una sua appendice. E quando l’anticonformismo diventa routine, l’unico modo per sentirsi ancora “diversi” è rompere con il capo, maledire il partito e gridare al tradimento. Ma il risultato è sempre lo stesso: un altro pezzo di quel sogno originario che si sbriciola. E a forza di “rimetterci la faccia”, si rischia di non salvarci più la reputazione.

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