Anno: XXVI - Numero 241    
Martedì 16 Dicembre 2025 ore 13:15
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L'Intifada globale. Ovunque c’è un ebreo, lì c’è un fronte

L’attentato di Sydney (in capo a dieci anni di attacchi antisemiti) di nuovo non è contro una rappresentanza diplomatica o militare, ma contro i civili.

L'Intifada globale. Ovunque c’è un ebreo, lì c’è un fronte

Nell’idea che il sionismo è un crimine ontologico. La normalizzazione, anche lessicale, dell’antisemitismo

L’attacco contro l’evento organizzato per celebrare Hanukkah a Bondi Beach, in Australia, non è un episodio isolato né un’improvvisa anomalia geografica. È l’ultimo anello di una catena che attraversa l’Occidente da almeno dieci anni. La sua rilevanza non sta solo nella brutalità dell’atto, ma nel luogo e nel contesto: lontano dal Medio Oriente, in una democrazia stabile, contro una comunità ebraica che non ha alcun ruolo operativo nel conflitto israelo-palestinese. Proprio per questo è un caso esemplare. Mostra con chiarezza cosa accade quando l’idea di “globalizzare l’intifada” smette di essere retorica militante pseudo-moralista e diventa una cornice mentale che sdogana la violenza.

Dal 2015 in poi, l’Occidente è stato attraversato da una serie continua di attacchi contro obiettivi ebraici. Nel gennaio 2015, a Parigi, l’attacco al supermercato kosher Hyper Cacher segnò uno spartiacque: l’ebreo come bersaglio diretto, selezionato, simbolico. Da lì in avanti la lista si è allungata: Bruxelles, Copenaghen, Parigi di nuovo; poi Pittsburgh nel 2018, la sinagoga Tree of Life, l’attentato antisemita più grave nella storia degli Stati Uniti; Poway nel 2019; Halle in Germania nello stesso anno; Jersey City; Colleyville in Texas; aggressioni ripetute a Los Angeles, Londra, Berlino, Amsterdam. Ora Sydney.

e matrici operative variano: jihadismo, suprematismo bianco, radicalizzazione individuale. Ma la scelta del bersaglio è sorprendentemente coerente. Non sedi diplomatiche israeliane, non obiettivi militari, non rappresentanze statali. Sinagoghe, scuole, supermercati, eventi religiosi, celebrazioni comunitarie. Civili. La costanza di questa selezione indica che non siamo di fronte a una semplice somma di estremismi, ma a un frame condiviso: l’ebreo come rappresentante di un conflitto globalizzato.

È qui che entra in gioco l’idea di “globalizzare l’intifada”. Storicamente, l’intifada non è stata una protesta generica né una rivolta simbolica, con buona pace di Francesca Albanese, Greta Thunberg e i loro epigoni. È sempre stata una strategia di conflitto asimmetrico che ha incluso sistematicamente la violenza contro civili, l’uso del terrore come strumento comunicativo e la selezione identitaria dei bersagli. Il suo tratto distintivo non era la rivendicazione territoriale in sé, ma la trasformazione del civile in combattente per definizione.

Negli ultimi dieci anni questa logica è stata progressivamente de-territorializzata. Prima sul piano simbolico, poi su quello discorsivo, infine su quello pratico. L’idea che il conflitto israelo-palestinese non sia una guerra localizzata, ma una struttura globale di oppressione; che il sionismo non sia una posizione politica, ma un crimine ontologico; che l’ebreo, ovunque si trovi, incarni quel crimine. Quando queste premesse entrano nel discorso pubblico, la conseguenza è inevitabile: ovunque può esserci un fronte.

Molti degli attentatori degli ultimi dieci anni non hanno lasciato manifesti ideologici complessi. Non ne avevano bisogno. L’ecosistema discorsivo era già pronto. Università, attivismo, social media e parte del mondo culturale hanno contribuito a normalizzare un linguaggio che non distingue più tra critica politica e delegittimazione identitaria. L’antisemitismo non si presenta più come odio esplicito, ma come analisi strutturale. Non come pregiudizio, ma come militanza morale.

Questo spiega un paradosso solo apparente: la crescita degli attacchi antisemiti proprio mentre aumenta la sensibilità formale verso il linguaggio dell’inclusione. L’antisemitismo contemporaneo non viola le regole del discorso progressista, le usa. Parla di decolonizzazione, di giustizia globale, di resistenza. E così facendo sposta il confine di ciò che è dicibile e, indirettamente, di ciò che è pensabile.

L’attacco di Bondi Beach si colloca perfettamente in questo schema. Non è stato colpito Israele. È stata colpita una comunità ebraica durante una celebrazione religiosa. Il messaggio non era politico in senso negoziale. Era simbolico e intimidatorio. Dimostrare che nessun luogo è neutrale, che nessuna distanza geografica garantisce sicurezza, che il conflitto può essere portato ovunque. Esattamente la logica dell’intifada, resa globale.

La risposta occidentale a questo processo è stata ambigua. Le condanne ufficiali non sono mancate. È mancata, invece, un’analisi seria del nesso tra linguaggio e violenza. Si continua a trattare ogni attacco come evento isolato, ogni aggressore come deviazione individuale, ogni slogan come semplice provocazione. Ma dieci anni di dati suggeriscono altro: le parole creano ambienti permissivi, e gli ambienti permissivi riducono il costo morale della violenza.

In Europa, e in Italia in particolare, questa rimozione è ancora più marcata. Si accetta che slogan che altrove verrebbero immediatamente qualificati come incitamento alla violenza circolino senza conseguenze. Si distingue artificialmente tra antisemitismo e antisionismo radicale anche quando la distinzione non regge empiricamente. Si interviene sempre dopo, mai prima.

Bondi Beach dovrebbe segnare un punto di svolta, non per l’ennesima condanna rituale, ma per una presa d’atto. Globalizzare l’intifada non è un atto di solidarietà. È una scelta ideologica che dissolve i confini morali tra conflitto e terrorismo, tra critica e minaccia, tra politica e violenza. E quando quei confini saltano, le conseguenze non restano mai simboliche.

Dieci anni di attacchi antisemiti in Occidente raccontano una storia coerente. Ignorarla non è prudenza. È irresponsabilità. E la storia europea insegna che l’antisemitismo, quando viene normalizzato nel linguaggio, non tarda mai a manifestarsi nei fatti.

di Andrea Molle su Huffpost

 

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