La farsa di Washington
Altro che diplomazia: alla Casa Bianca è andato in scena un reality show. Putin recita, Trump abbocca, Zelensky resta il capro espiatorio. E l’Europa? Applaude in platea.
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Il vertice alla Casa Bianca ha mostrato i limiti della diplomazia ridotta a spettacolo. Putin avanza con la forza, Trump gioca a fare il protagonista, l’Europa resta inerme. Ma la posta in gioco non è l’immagine: è il destino dell’Ucraina e della sicurezza europea.
C’è un momento in cui la politica internazionale smette di essere diplomazia e diventa teatro. È accaduto alla Casa Bianca, dove il tanto atteso vertice si è trasformato in un palcoscenico mediatico. Più che discutere di strategie, si è recitato un copione fatto di sorrisi, dichiarazioni roboanti, promesse e smentite. Un reality show geopolitico che forse serve alle rispettive opinioni pubbliche, ma che non sposta di un millimetro l’asse della guerra in Ucraina.
Il protagonista nascosto, naturalmente, è Vladimir Putin. Da maestro di ambiguità qual è, ha saputo intessere la sua narrazione con la consueta abilità: parla di pace giusta, di garanzie per la sicurezza e perfino di una possibile architettura simile all’articolo 5 della Nato, cioè l’impegno collettivo alla difesa. Ma dietro l’eloquenza non c’è alcuna concessione sostanziale: l’unico obiettivo del Cremlino resta l’annessione stabile e definitiva dell’Ucraina orientale, e forse la conquista di Odessa, per assicurarsi lo sbocco al Mar Nero e strangolare definitivamente Kiev.
Il resto è scenografia. Putin non cerca compromessi, cerca alibi. La sua mossa è astuta: presentarsi come disponibile a una pace mutilante, sapendo che Kiev non potrà mai accettarla. A quel punto sarà semplice puntare il dito e dire: “vedete? Non sono io a impedire la fine della carneficina, è il nazista Zelensky”. Un colpo di teatro studiato non per convincere gli europei — che ormai hanno pochi dubbi sulla natura aggressiva della Russia — ma per sedurre Trump, e attraverso di lui, un’opinione pubblica americana stanca di spendere miliardi in una guerra lontana.
E qui arriviamo all’altro protagonista: Donald Trump. Il presidente — e futuro candidato alla rielezione — è l’interlocutore perfetto per Putin. Narcisista, mutevole, ossessionato dall’immagine immediata più che dalla prospettiva storica, Trump si lascia facilmente incantare da chi gli offre l’occasione di presentarsi come “l’uomo della pace”. Ma a che prezzo? Già in passato ha dimostrato di cambiare posizione in meno di ventiquattr’ore, smentendo clamorosamente dichiarazioni fatte con solennità il giorno prima. È evidente che a Mosca questo non dispiaccia: un leader incoerente è più facile da manipolare di uno coerente, anche se ostile.
La verità è che la diplomazia seria non si fa davanti alle telecamere. I negoziati duri, quelli che contano, si conducono lontano dai riflettori: nelle stanze chiuse, dove ciascuno può mostrare le proprie carte senza dover salvare la faccia davanti al mondo. Esporre ogni parola in pubblico significa irrigidire le posizioni, perché nessuno può permettersi di apparire debole o contraddittorio. Significa offrire armi propagandistiche al nemico, che può manipolare le dichiarazioni a proprio vantaggio. Significa, infine, condannare la politica estera a diventare spettacolo, quando dovrebbe restare sostanza.
Non a caso, dall’altra parte del mondo, i BRICS si muovono con modalità diverse. Consultazioni silenziose, incontri meno scenografici, decisioni che filtrano solo quando ormai sono prese. Certo, non si tratta di un blocco coeso: le divergenze tra India e Cina, per esempio, restano profonde. Ma l’immagine che offrono è quella di attori che discutono seriamente, senza cedere alla tentazione del palcoscenico. Una lezione amara per l’Occidente, che sembra invece convinto che basti la retorica per sostituire la strategia.
E l’Europa? Il grande assente di questa vicenda. Da due anni a questa parte si limita a reagire agli eventi, raramente a indirizzarli. È vero: senza la protezione militare americana, il Vecchio Continente non potrebbe sostenere a lungo lo sforzo bellico. Ma continuare a delegare interamente la regia a Washington significa condannarsi al ruolo di spettatore pagante. E, come sempre accade, gli spettatori non decidono la trama: si limitano ad applaudirla o fischiarla.
La farsa di Washington ci lascia dunque un insegnamento chiaro: finché l’Occidente confonderà il teatro con la politica, Putin continuerà ad avere il vantaggio. Perché lui, a differenza nostra, non ha bisogno di piacere al pubblico: gli basta vincere la guerra.
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