Anno: XXVI - Numero 225    
Venerdì 21 Novembre 2025 ore 13:35
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Se Elly Schlein ne andasse senza che nessuno la vedesse andar via, ci resterebbe anche il dubbio che sia mai esistita.

Tra moderati inquieti, sinistre coalizzate e un centro che non decolla, la segretaria dem entra nella fase più delicata: vuole guidare l’intera coalizione, ma rischia di restare leader solo di una parte.

Se Elly Schlein ne andasse senza che nessuno la vedesse andar via, ci resterebbe anche il dubbio che sia mai esistita.

Il “caso Garofani” è solo l’ultima spia di un malessere che nel Pd covava da mesi: la frattura mai sanata tra l’asse riformista di matrice ex democristiana e il nuovo gruppo dirigente plasmato da Elly Schlein. Garofani non parla solo per sé, e infatti le sue parole somigliano a quelle pronunciate o sussurrate da Prodi, Gentiloni, Zanda, Castagnetti. È il risveglio di un mondo che si era illuso che la vittoria congressuale di Schlein sarebbe stata un passaggio temporaneo, non una rifondazione identitaria.

Schlein reagisce a modo suo: trasforma l’episodio nel “lodo Zanicchi”, una narrazione autoassolutoria secondo cui anche la destra pop all’occorrenza la troverebbe votabile. È un antidoto retorico utile per galvanizzare la base, ma non risolve il nodo vero: i moderati del Pd non si riconoscono nella sua leadership, e non sentono garantita una rappresentanza politica che sia più larga del recinto progressista.

Nel frattempo, la segretaria si abbraccia con le correnti di sinistra e i franceschiniani a Montepulciano, compattando un blocco che diventa, nei fatti, il nuovo baricentro del partito. È una scelta tattica che rafforza la maggioranza interna ma indebolisce la vocazione pluralista del Pd, proprio mentre dovrebbe costruire una coalizione capace di parlare al 45% del Paese.

I riformisti reagiscono con un controvertice a Prato: un gesto simbolico ma eloquente. Non hanno la forza numerica per sfidare Schlein in un congresso, ma hanno la forza politica per rendere complicata la costruzione delle liste e della futura coalizione. Schlein lo sa: la loro “debolezza” è relativa, perché nella partita nazionale i voti moderati valgono più dei numeri congressuali.

Resta lo scenario delle primarie di coalizione. La segretaria le vuole; gli altri, più che volerle, le temono. Conte è l’unico sfidante reale, e D’Alimonte ha ragione: né una leadership schleiniana né una contiana garantirebbe lo spostamento dell’intero pacchetto di voti del centrosinistra. Ciascuno attrae pezzi diversi, e perde pezzi diversi.

È qui che torna l’antica fantasia del “papa straniero”: una figura esterna, riformista e inclusiva, che permetta a Pd e M5s di evitare la reciproca dispersione di consensi. È un’ipotesi che nessuno ammette apertamente, ma che serpeggia nei commenti dei riformisti, negli appunti del Quirinale e nelle analisi degli accademici. Schlein può battere Conte; Conte può battere Schlein; ma entrambi rischiano di non battere la destra.

In definitiva, l’articolo racconta un partito che si muove molto, ma discute poco. E che rischia di arrivare alla vigilia delle elezioni con una leader forte nel partito, ma non necessariamente nel Paese. Schlein è pronta a correre: ma non è detto che tutti corrano con lei.

 

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