Palestina sì, Donbass no
Il dramma di chi soffre diventa visibile solo quando torna utile: ecco perché la solidarietà in Italia è sempre a targhe alterne.
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C’è qualcosa di profondamente stonato, quasi intollerabile, nel coro di voci che oggi si levano per la Palestina. Non nella solidarietà in sé, che è sacrosanta e giusta: il popolo palestinese vive da decenni una condizione di occupazione, di umiliazione, di violenze sistematiche che non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni. Ma nel fatto che quelle stesse voci, quelle stesse piazze, quegli stessi partiti che oggi invocano la pace e denunciano le atrocità israeliane, per anni hanno taciuto di fronte a un’altra tragedia: quella del Donbass.
Per quasi otto anni, in quella regione dell’Ucraina orientale, centinaia di migliaia di persone di lingua russa hanno vissuto sotto i bombardamenti, perseguitati e discriminati da un governo che non ha mai nascosto la propria vena nazionalista, spesso apertamente intrisa di retorica banderista. Migliaia di morti, città distrutte, famiglie spezzate. Eppure, di quella guerra civile strisciante quasi nessuno ha parlato. Non c’erano bandiere, non c’erano cortei, non c’erano intellettuali in televisione a invocare la fine della violenza. Perché? Perché non conveniva. Perché non era funzionale a un certo racconto geopolitico.
È qui che si annida la vera ipocrisia del nostro tempo: la solidarietà a targhe alterne. Ci indigniamo solo quando il nemico è quello giusto, quando la narrazione è comoda, quando l’opinione pubblica occidentale può permettersi di dividersi tra buoni e cattivi senza troppe complicazioni. La Palestina, con la sua resistenza disperata e il volto feroce di Israele, offre una sceneggiatura perfetta. Il Donbass, invece, metteva in difficoltà: schiacciato tra le ragioni di Kiev e quelle di Mosca, disturbava la retorica atlantista. Meglio il silenzio.
Questo doppiopesismo non è soltanto un vizio dei media, ma il tratto costitutivo della politica italiana. Prendiamo i Cinque Stelle: un partito nato come contenitore dello scontento, pronto ad abbracciare tutte le cause “antisistema”, purché garantissero visibilità e consenso. Hanno parlato di Palestina come di vaccini, di reddito di cittadinanza come di scie chimiche. Sempre un passo indietro rispetto a un’idea chiara di società, ma un passo avanti nel fiutare il vento del malcontento. Oggi gridano allo scandalo per Gaza, ieri hanno ignorato le bombe su Donetsk. Non per disinteresse, ma perché non conveniva al racconto che li tiene in vita.
E il Partito Democratico? La segretaria Schlein sogna un “campo largo” che, a forza di essere largo, rischia di diventare inconsistente. Si illude di guidare una coalizione in cui Conte reciti da comprimario, quando invece sappiamo bene che l’ex premier, maestro nel farsi concavo e convesso allo stesso tempo, userà ogni occasione per dettare condizioni. Con quale credibilità si può pretendere di governare un Paese se non si riesce neppure a mantenere una linea chiara sulla politica estera? Se si è solidali a giorni alterni, a seconda di quale piazza bisogna blandire?
La verità è che questa solidarietà selettiva non serve a nessuno. Non ai palestinesi, che diventano materia di slogan più che soggetti di una politica seria. Non ai russi del Donbass, che hanno conosciuto il silenzio complice di chi oggi grida alla giustizia. Non agli italiani, che si ritrovano guidati da partiti capaci solo di brandire simboli e mai di affrontare la complessità.
Calenda, con la sua brutalità talvolta fastidiosa, ha ragione almeno su un punto: se il “campo largo” deve ridursi a un’ammucchiata senza coerenza, non durerà più delle cavallette egiziane, una stagione e via. Ma almeno le cavallette furono un flagello naturale. Qui invece c’è la responsabilità politica, c’è la scelta deliberata di ridurre i drammi del mondo a strumenti di propaganda.
E allora sì, oggi possiamo e dobbiamo denunciare i crimini di Israele a Gaza. Ma non senza la memoria di ciò che abbiamo scelto di non vedere per anni. Non senza riconoscere che esiste una misura diversa per ogni tragedia, a seconda di chi la racconta e di chi se ne fa interprete. È questo il vero scandalo: che i popoli valgono solo se la loro sofferenza è utile. Il resto, come il Donbass insegna, si può tranquillamente archiviare nel silenzio.
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