La giustizia trasformata in feudo: quando i tribunali diventano “casa loro”
L’Associazione Nazionale Magistrati scambia i palazzi di giustizia per sedi di partito e rivendica una “proprietà” morale e fisica dei tribunali. Ma la giustizia non è dei magistrati: è dei cittadini. E il suo primo dovere è restare neutrale.
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C’è un punto, in tutta la vicenda delle “giornate della giustizia” organizzate dall’Associazione Nazionale Magistrati, che colpisce più di ogni altro: l’idea che i tribunali siano “casa nostra”. Tre parole, ripetute con compiacimento da un presidente di sezione dell’ANM, che dicono tutto. Dicono di una cultura di corpo che considera la giustizia non come un servizio pubblico, ma come un possesso esclusivo, un territorio da difendere, un tempio in cui solo i sacerdoti togati possono parlare con voce legittima. E tutto il resto – cittadini, studenti, avvocati – resta fuori, come ospite tollerato.
Da qui nasce il cortocircuito che mina la credibilità dell’intero sistema. Se la giustizia è “cosa loro”, allora non può essere imparziale. E se chi amministra la giustizia utilizza le aule giudiziarie per fare campagna politica contro una riforma, la distanza tra potere e cittadino si fa abisso. Non si tratta di discutere nel merito della separazione delle carriere – tema complesso e divisivo – ma del principio di fondo: chi amministra la giustizia non può, nello stesso luogo in cui giudica, fare propaganda per difendere la propria posizione corporativa.
Le “giornate della giustizia” vengono presentate come iniziative culturali, ma la maschera regge poco. Sono comizi travestiti da dibattiti, con un messaggio chiaro: la giustizia deve restare così com’è, perché così conviene a chi la esercita. Eppure, se c’è un terreno su cui la magistratura dovrebbe mostrare trasparenza e autocritica, è proprio quello delle proprie responsabilità. Gli errori giudiziari, le carriere che non si separano, la mancanza di sanzioni disciplinari, il sistema di autogoverno che da anni si trascina tra scandali e correntismi: temi che non trovano spazio nelle “giornate”, ma che toccano da vicino la fiducia dei cittadini.
La giustizia non è un patrimonio privato. È un bene pubblico, fragile, che vive solo di fiducia. Ogni volta che un magistrato confonde la toga con un simbolo di appartenenza e il tribunale con il proprio salotto, quella fiducia si incrina. Ed è un danno che nessuna riforma, per quanto ben scritta, potrà più riparare.
Se i tribunali sono davvero “casa loro”, allora i cittadini sono già fuori. E in un Paese democratico, una giustizia senza cittadini dentro è una giustizia che ha smarrito sé stessa.
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