Camale-Conte torna a colori: il ritorno del moderato radicale
Tra pochette e mozioni autonome, l’ex premier cambia pelle ma non destino: la fame di Palazzo Chigi è tornata.
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C’è chi cambia idea e chi cambia postura. Giuseppe Conte ha scelto la seconda: la voce si è abbassata, la pochette è tornata in asse, e il passo è quello di chi ha capito che, in politica, urlare serve solo quando ti serve. Non più il tribuno del popolo, ma il democristiano col rosario dell’etica in tasca e il manuale Cencelli sotto il braccio. L’avvocato del popolo è tornato, ma stavolta in giacca e misura, non in felpa e dirette Facebook.
Negarlo, del resto, sarebbe inutile. Lui si affretta a spiegare che non si è affatto moderato, che i valori restano quelli del Movimento delle origini, solo tradotti in “politiche concrete”. Ma il traduttore, si sa, a volte tradisce. E la nuova lingua di Conte è quella del compromesso, del centro-sinistra ragionevole, del “dialoghiamo” pronunciato col sorriso da chi ha imparato che la durezza dei toni non porta voti, ma isolamento. Ora il Conte manovriero entra in scena, con passo felpato e la faccia di chi non si stupirebbe di ritrovarsi, per caso, di nuovo a Palazzo Chigi.
Il primo segnale è arrivato con la mozione sulla Libia. Una di quelle cose che non incendiano i cuori ma rassicurano i salotti: niente cancellazione, solo revisione del Memorandum. Tradotto, il populista che urlava contro i porti chiusi ora parla di “conciliare diritti e sicurezza”. Il linguaggio è cambiato, la grammatica pure: basta “onestà!” gridata in piazza, ora si ragiona in policy. Un Conte che si presenta come affidabile, ragionevole, perfino governabile. Una bestemmia per il grillismo delle origini, ma una carezza per chi, nel centrosinistra, non sa più dove mettere i piedi senza inciampare in un estremista o in un renziano.
Poi c’è la scena al Parco dei Principi, con i “civici” di Onorato. Non la rivoluzione, ma la liturgia del potere in chiave romana: un bacio sulla guancia, un sorriso di circostanza, e il messaggio subliminale — “possiamo dialogare”. E chi se ne importa se Elly Schlein non c’era: a volte, per conquistare il centrosinistra, bisogna passare dal centro. Conte l’ha capito, e lo fa con la grazia di chi sa che il vero radicalismo oggi è la normalità.
Alla piazza per Ranucci, poi, si è presentato in versione statista: compostezza, condanna sobria delle querele temerarie, nessun fischio agli avversari. Non un passo falso, non un’espressione fuori posto. La metamorfosi è completa: da barricadero digitale a custode dell’equilibrio repubblicano. Perfino il corpo parla, scrive De Angelis: il libricino mostrato alla Meloni alla Camera — gesto di chi “sa come si fa un bilancio” — è la mossa simbolica del professore che spiega alla studentessa ribelle (Schlein) come si gestisce un’aula.
Naturalmente, sotto la seta della pochette, batte ancora il cuore di un pragmatico. Il Conte nuovo ha imparato che la purezza morale non porta voti, ma scontri interni. Così ingoia qualche indagato nelle Marche, qualche cacicco in Campania, un governatore “convertito” in Toscana. In altri tempi avrebbe urlato alla questione morale; oggi fa finta di niente e lascia che Chiara Appendino giochi la parte della coscienza del movimento. Il manovratore ringrazia: finché la critica è interna ma innocua, il controllo resta saldo.
Dietro tutto questo, dice De Angelis, non c’è un grande disegno. Vero. Ma c’è un istinto animale per la sopravvivenza, un intuito che in politica vale quanto un programma. Conte fiuta l’aria, sente che il centrosinistra è un cantiere aperto, e piazza il suo banchetto al centro, tra gli operai del PD e gli apprendisti di Calenda. Se mai dovessero arrivare le primarie, lui ci sarà, con la carta dell’esperienza: “Quel mestiere, signori, l’ho già fatto.” E non importa se ci è stato sfrattato. L’importante, come in ogni trasloco politico, è tenere le chiavi di riserva.
In fondo, Conte è l’unico nel campo progressista che ancora parla al Paese con un tono “di governo”. Schlein urla al sistema, Meloni domina il sistema, lui lo corteggia. È il centrismo postmoderno: un piede nella radicalità, l’altro nel compromesso. E mentre gli altri si dividono sui massimi sistemi, lui si prepara a infilarsi dove resta spazio. Perché, come diceva un vecchio democristiano, “chi si ferma è perduto, e chi urla troppo resta solo”.
Così, rieccolo: Camale-Conte, versione 2025. Radical-chic per necessità, moderato per convenienza, pragmatico per vocazione. Non c’è un progetto, forse, ma c’è una direzione: quella che porta di nuovo a Palazzo Chigi, passando per tutte le sfumature del grigio. E se per arrivarci serve cambiare colore, be’, lui ha già pronto il pennello.
Estratto da “Lo spigolo”, la newsletter di Alessandro De Angelis per www.lastampa.it
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