Quello che Schlein è. È L’ostilità della sinistra per le riforme via referendum
A partire da Togliatti e poi con Berlinguer, il Pci è sempre stato campione del conservatorismo costituzionale e contrario alle partite referendarie. Quando con Occhetto tutto cambiò per surfare l’onda. Ora si cerca una nuova via: il movimentismo.
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Qualcuno si stupisce, e se ne dispiace, che Elly Schlein non mostri alcun interesse per le riforme della Costituzione, anzi rifiuti il dialogo con le destre su come ristrutturare lo Stato, iniziando dalla giustizia per proseguire magari con l’elezione diretta del premier: temi che le “rimbalzano”, come direbbero a Roma. Dove si tira in ballo l’indole della segretaria Pd, la sua formazione politica movimentista, l’attrazione che lei prova per tutto quanto si agita nella società, dalle “flottille” a Zohran Mamdani, convinta com’è di interpretare gli umori degli elettori più giovani che quando si parla di istituzioni sbadigliano annoiati e se ne vanno (lei con loro). Dietro l’indifferenza di Schlein per le riforme ci sarebbe, insomma, una tara generazionale. Ma non è l’unica spiegazione. Ne circolano altre, altrettanto suggestive.
Una di queste si ritrova nel volume scritto a più mani e coordinato dalla studiosa Anna Chimenti col titolo Le stagioni del referendum, Giappichelli editore. C’è un lungo capitolo elaborato da Claudia Mancina, studiosa e fautrice delle riforme, dove si spiega come lo scetticismo ostentato da Schlein nei confronti dei cambi di sistema altro non sia, in fondo, che un ritorno al passato. La difesa della Costituzione vigente accomuna il Pd (gestione attuale) al vecchio Partito comunista italiano, campione del conservatorismo istituzionale. Termine che, sia chiaro, non va inteso come un insulto ma quale dato di fatto di cui magari andare orgogliosi, dipende dai gusti. La storia, talvolta, è di aiuto a capire il presente e Mancina srotola il filo rosso che lega la segretaria Pd a lontani predecessori, giganti della politica come Enrico Berlinguer e, addirittura, Palmiro Togliatti (detto non a caso il “Migliore”).
Togliatti fu tra i padri della Repubblica. La voleva così per sempre e diffidava degli strumenti di democrazia diretta, come i referendum, sospettati di scassare gli equilibri costituzionali. La volontà del popolo doveva passare sempre dal Parlamento e dai partiti, mai esprimersi a briglia sciolta. Quando la Dc sfidò la legge sul divorzio, chiedendone nel 1974 l’abrogazione, Berlinguer fece di tutto per scansare il referendum. Fu costretto a vincerlo suo malgrado. Idem sull’aborto, sette anni dopo: pure in quel caso il Pci tentò di evitare lo scontro referendario senza riuscirci (per sua fortuna, visto l’esito). Scelse l’appello al popolo, invece, contro il governo di Bettino Craxi che aveva frenato l’adeguamento automatico dei salari all’inflazione, allora galoppante. Prese un ceffone, si pentì di averci provato.
Il clima sulle riforme cambiò con il crollo del Muro, nel 1989. Achille Occhetto fiutò l’occasione di surfare l’onda del “nuovo” sostenendo le spallate referendarie di Mario Segni sul sistema maggioritario. Per un quarto di secolo il Pci-Pds, accasatosi nel Pd, fu interprete di tutti i tentativi volti ad ammodernare l’Italia con l’aiuto della Consulta che fino ad allora era stata la “Cupola partitocratica” (definizione di Marco Pannella) ma d’improvviso abbracciò il cambiamento. Massimo D’Alema tentò addirittura il patto col diavolo, incarnato da Silvio Berlusconi, sul presupposto che la casa comune andava resa più solida per potersi combattersi meglio. Il dialogo istituzionale inteso, finalmente, come valore.
Fu in quella fase storica che la sinistra sostenne tesi come l’elezione diretta del premier, o la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, che oggi vengono sbandierate dalla destra quasi le avesse estratte dal cilindro Giorgia Meloni. La stagione si chiuse nel 2016 per colpa di Matteo Renzi, che per ipertrofia dell’ego riuscì a farsi bocciare la “sua”, di riforme. Anziché sul bicameralismo perfetto, lo statista di Rignano mise la pietra tombale sul riformismo Dem. Da allora il Pd è ritornato nelle trincee della sinistra più antica, prende atto Claudia Mancina; ha subìto il richiamo della foresta per cui la Costituzione è diventata daccapo intoccabile, intangibile, oggetto di culto, mistero della fede. Elly come Palmiro, anzi Palmira.
Si potrebbe obiettare che non è proprio così; nel 2020, per esempio, il Pd ha sostenuto il referendum sul taglio dei parlamentari, a riprova che qualche riforma costituzionale è ancora accettata. Ma due costituzionalisti che ben conoscono la vicenda, Stefano Ceccanti e Francesco Clementi, in un altro saggio del libro ricostruiscono come andò davvero: il Partito democratico era inizialmente contrario; divenne favorevole alla riforma (proposta dai Cinque stelle) solo perché temeva di perdere le successive elezioni politiche; diede il via libera nella speranza di ottenere in cambio una legge elettorale proporzionale, che ci avrebbe riportato ai tempi della Prima Repubblica. Sarebbe stata la chiusura del cerchio, il ripudio finale del riformismo. Ma fece male i suoi conti: non ottenne il proporzionale e si ritrovò sconfitto all’opposizione.
di Ugo Magri su Huffpost
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