Anno: XXVI - Numero 226    
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"Meloni non vuole la riforma Crosetto sulla cybersicurezza, nasce lì la tensione col Colle"

Intervista con Enrico Borghi presidente dei senatori di Italia Viva, componente del Copasir, che offre una lettura diversa del caso Garofani.

“L’attacco di FdI al Quirinale è il primo colpo di cannone di una battaglia che durerà anni, che passerà per il referendum sulla giustizia, per la legge elettorale, e per le Politiche pensate come un plebiscito”

C’è la riforma della cybersicurezza proposta dal ministro della Difesa Guido Crosetto, e condivisa dal Quirinale, al centro delle tensioni tra Fratelli d’Italia e il Colle. Ne è convinto il presidente dei senatori di Italia viva, Enrico Borghi, componente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi. Cinquantasette anni, democristiano di sinistra, proprio come Francesco Saverio Garofani, Borghi spiega in un colloquio con Huffpost perché Giorgia Meloni teme la cultura politica di cui è espressione anche il Capo dello Stato.

Senatore, come spiegate le tensioni tra Giorgia Meloni, e il suo partito, con il Quirinale?
Una possibile ragione della reazione di Meloni è iscritta nel verbale del Consiglio supremo di difesa, steso da quel Francesco Garofani contro di cui la destra muove i suoi strali. Nella riunione di lunedì scorso, Crosetto ha avocato alla Difesa la governance della cybersicurezza, che allo stato attuale è nelle mani dell’Agenzia che risponde direttamente a Mantovano. E ha posto la Difesa come perno centrale per la tutela dalla guerra ibrida, sovvertendo concettualmente l’impianto attuale della gerarchia degli apparati. Meloni evidentemente non ha gradito. Da qui nasce la reazione che abbiamo visto.

Che cosa prevede in particolare la riforma Crosetto?

Il ministro ha colto un tema su cui noi dell’opposizione stiamo da tempo incalzando: l’esigenza di adeguarci e proteggerci dalla guerra ibrida. Noi di Italia Viva abbiamo fatto disegni di legge appositi, ma anche Azione e il Pd si sono attivati. Mentre dalla maggioranza silenzio totale. Ora, l’iniziativa del ministro è un sasso in piccionaia: scardina l’assetto di gerarchia del potere costruito dalla legge 124/2007, che impernia sui Servizi, sulle tre agenzie (AISI ed AISE per il sistema di informazione e ACN per la cybersecurity) e su Palazzo Chigi il vertice del sistema di informazione e di sicurezza cibernetica. È una questione vitale per la democrazia, riguarda chi ha il potere sugli apparati e come lo esercita. L’idea di attribuire alla Difesa una responsabilità piena e un potenziamento di funzioni e strutture cambia totalmente lo schema. E produce inevitabilmente ripercussioni. Ma c’è dell’altro.

A cosa si riferisce?

Crosetto ha mandato il documento illustrato al Quirinale per primi a noi parlamentari. Nel dossier richiama esplicitamente le proposte di legge depositate in Commissione Difesa sul tema della cybersecurity. Questo per dire che a differenza dei suoi colleghi che stanno a Palazzo Chigi, il ministro ha impostato un rapporto istituzionalmente corretto col Parlamento. E io credo che anche per questo Meloni lo tema. Lo teme perché è anche potenzialmente un rivale diretto nella corsa al Quirinale. Sul caso Garofani, va in scena la reazione di Meloni alla sintonia oggettiva che si crea tra Mattarella e Crosetto. In più è un segnale di nervosismo della premier. Teme Crosetto nella corsa per il Quirinale.

Lei dà per scontato che la premier, dopo le prossime politiche, voglia tentare l’elezione al Colle.

Meloni punta al Colle per realizzare un presidenzialismo di fatto. Nella storia repubblicana non è mai successo che un presidente del Consiglio diventasse presidente della Repubblica. È una rottura istituzionale e l’attacco di FdI al Quirinale è il primo colpo di cannone di una battaglia che sarà lunga anni, che passerà per il referendum sulla giustizia, per la legge elettorale, e per le politiche pensate come un plebiscito. Rimaniamo nell’analisi di scenario: in caso di vittoria della destra con Crosetto saremmo invece nel solco della democrazia parlamentare, della continuità. Lei deve vincere le elezioni politiche vissute come un plebiscito e sperare nel voto in più garantito dal premio di maggioranza che si sta progettando. Lui potrebbe allargare la raccolta di consenso anche alle opposizioni. È chiara ora la posta in gioco, e perchè ha ragione Matteo Renzi quando dice che chiunque dall’opposizione si tirasse fuori dall’alternativa e giocasse ai veti si renderebbe responsabile della stagione dei pieni poteri della destra?

Si è detto molto sulla cosiddetta merkelizzazione di Meloni, detta all’italiana, sulla sua trasformazione in una leader più moderata. Il caso Garofani sembra contraddire questo trend. O sbaglio?
Meloni teme i democristiani di sinistra. Ci teme per la nostra cultura istituzionale, perché sa che siamo nati da una idea di libertà e di democrazia, siamo formati al senso dello Stato e pensiamo che la politica abbia un valore di governo della società partendo dall’idea del limite della politica senza concepirla come il tutto, e applichiamo categorie nelle quali gran parte del Paese si riconosce. Ma ci teme soprattutto perché competiamo su uno spazio politico essenziale, quello di un elettorato che non si sente rappresentato da un’offerta politica “cilena” e si rifugia in un astensionismo consapevole. Di questo ha paura perché sa che lì può nascere l’alternativa alla destra italiana, e non solo a quella italiana.

A che punto è il progetto di Casa riformista?

Ci eravamo dati queste regionali come l’appuntamento in cui testare il gradimento su un’idea. I riscontri sono positivi. Proponiamo a quanti sono interessati il modello toscano, dove dietro a una leadership riconosciuta è stato possibile unire più soggetti riformisti. Con un risultato del 9 per cento che è un obiettivo realizzabile anche in ambito nazionale. Ed è tanto più utile se, come pare, la destra proporrà una riforma della legge elettorale che ci porterà ad unirci. Per quanto ci riguarda, noi nel caso saremmo pronti alle primarie, che vedrebbero sicuramente in campo un nostro rappresentante

Nel Pd l’area riformista manifesta una certa vivacità. Credete sia possibile una convergenza?
Anche i riformisti del Pd dovrebbero essere più espliciti, prendere atto della oggettiva trasformazione strutturale di quel partito che è irrevocabile. Se tutto il loro movimentismo si risolvesse nella concessione di un diritto di tribuna, con la riserva di un tot di posti sicuri nelle liste elettorali, sarebbe ben poca cosa. Si darebbero l’orizzonte di una sopravvivenza della specie. Ma come insegna Darwin, porsi come obiettivo la sopravvivenza è  aver imboccato il primo gradino per l’estinzione. Mentre il riformismo resta l’unico spazio per la mediazione tra le istanze della società e il governo del Paese, senza arrendersi a radicalismi che finiscono con illanguidire l’idea stessa di democrazia

Secondo indiscrezioni, Meloni potrebbe assicurare ad Azione una norma nella legge elettorale che gli consente di correre da solo ed eleggere comunque.

Occupiamoci di politica, non di gossip.

di  Alfonso Raimo su Huffpost

 

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