Scossone a orologeria
Il Quirinale nel mirino.
La famigerata cena durante la quale il consigliere di Mattarella, Francesco Saverio Garofani, avrebbe fatto i suoi ragionamenti politici è avvenuta il 13 novembre, alla “terrazza Borromini” (la mail a “la verità” e altri giornali è arrivata tre giorni dopo, il 16) – era una cena privata dopo l’evento in ricordo dell’ex calciatore della Roma, Agostino Di Bartolomei – c’erano 16 persone al tavolo, provenienti da mondi diversi. Tra loro c’era un giornalista che ha lavorato in un quotidiano di destra. Chi ha “tradito” Garofani? (e qualche sospetto ormai prende forma) – è stato usato il telefono per registrarlo?
Nel rompicapo del Garofani-gate c’è un elemento che continua a imporsi su tutto il resto: il tempismo. Non il contenuto dell’audio – che nessuno ha ascoltato – né la sostanza delle frasi pronunciate in un ristorante, ma la scelta del momento in cui la vicenda viene fatta detonare. Il giorno dopo il Consiglio supremo di Difesa in cui Mattarella, con la consueta sobrietà, ribadisce ciò che in un Paese normale non sarebbe nemmeno oggetto di discussione: l’Italia resta saldamente ancorata all’Europa, alla Nato, e sostiene l’Ucraina perché la sua libertà riguarda anche noi. Una coincidenza? Forse. Ma la politica italiana vive di coincidenze che sembrano più messaggi che incidenti.
Da mesi, il Capo dello Stato non fa altro che richiamare l’ovvio: l’Unione europea è il nostro spazio vitale, la Nato la nostra garanzia di sicurezza. E chi lavora per indebolirle – che venga da Washington, da Mosca, da Budapest o da Berlino – mina direttamente anche l’interesse nazionale italiano. È un richiamo istituzionale, non una polemica. Ma è proprio questo a infastidire chi in maggioranza coltiva simpatie per un’altra visione del mondo: quella in cui l’Italia si smarca dall’Occidente, simpatizza per i nazionalismi sovranisti, indulge alle narrative del Cremlino o alle torsioni muscolari di Trump. L’elenco degli “amici” di Meloni e Salvini coincide in modo troppo perfetto con l’elenco dei bersagli delle ultime uscite presidenziali. E questo non è un dettaglio da analisi politica: è una frizione di sistema.
Dentro questo contesto, l’operazione mediatica su Garofani assomiglia più a un diversivo che a uno scoop. Non esiste al momento alcuna prova pubblica che confermi l’esistenza di un “piano del Colle per fermare Meloni”. Non un documento, non una registrazione integrale, nulla che assomigli alla smoking gun. Se l’audio fosse davvero così esplosivo, sarebbe già stato pubblicato in apertura di sito, rilanciato in TV, sezionato parola per parola. Chi possiede materiale realmente devastante non lo tiene nel cassetto: lo usa. Se invece l’audio esiste ma non conferma la tesi costruita attorno, pubblicarlo sarebbe controproducente. E se non esiste, tutto si riduce a una narrazione costruita su mezze frasi e ammissioni vaghe, utili solo a generare sospetto.
Il punto, allora, non è Garofani. È l’uso di Garofani. Un funzionario finora ignoto ai più, presentato improvvisamente come la mente di un complotto di palazzo, senza che nessuno spieghi perché un presunto complotto verrebbe orchestrato chiacchierando in un ristorante pieno di sconosciuti. E soprattutto senza che venga chiarito come un commento sullo stato comatoso del centrosinistra possa trasformarsi in un tentativo di rovesciare il governo. Tutto torna solo se l’obiettivo non è la verità ma il frame: far passare l’idea che il Colle interferisca, trami, ostacoli la volontà popolare. Delegittimare Mattarella, insomma, proprio nel momento in cui difende la postura esterna del Paese.
Meloni, da parte sua, resta in una posizione ambigua. Non smentisce apertamente la narrativa del complotto, ma nemmeno la avalla con decisione. Lascia che sia il sistema mediatico a sostenere il sospetto, mentre lei si limita a evocare un governo “coeso”, un Paese “in ripresa”, una leadership “salda”. Ma la domanda resta lì, irrisolta: da che parte sta davvero la premier quando il suo alleato Salvini attacca l’Ucraina, coccola Orbán e strizza l’occhio a Trump? E cosa pensa quando il Presidente della Repubblica denuncia apertamente la deriva dei sovranismi, delle destre antieuropee, delle tentazioni autoritarie che tornano a bussare alle porte del continente?
Il nervo scoperto è tutto qui: Mattarella non fa politica, ma ricorda che l’Italia ha dei paletti. E quei paletti irritano chi vorrebbe spostarli. Colpirlo direttamente sarebbe un suicidio istituzionale; colpire un suo collaboratore è più comodo e meno costoso. È un classico della lotta politica: non puoi attaccare la figura, allora provi a incrinare il contesto. Sfiancare il Colle per interposta persona, insinuare l’idea che la presidenza giochi una partita propria, delegittimarla agli occhi dell’opinione pubblica per ridurne la forza arbitrale.
Resta la grande domanda: chi ha registrato? Perché? E soprattutto: perché proprio ora? L’incertezza è il fertilizzante ideale delle narrazioni tossiche. Senza un file, senza un nome, senza una dinamica chiara, è il sospetto a dominare. E il sospetto, in questi casi, è un’arma: non serve dimostrare nulla, basta far mugugnare abbastanza. Basta far credere che “qualcosa bolle in pentola”. Basta insinuare che il Quirinale sia “contro il governo”. Funziona sempre.
Il rischio, però, è enorme: trasformare un equilibrio già fragile in un conflitto istituzionale permanente. Indebolire l’unica figura che, nel caos di questa fase storica, ha mantenuto una rotta coerente. E in un Paese che troppo spesso ha confuso la politica con la guerriglia, questo non è un dettaglio: è un pericolo.
Alla fine, non sappiamo chi ha acceso la miccia. Ma sappiamo con precisione chi beneficia del fumo. E in politica, spesso, questo basta per capire la scena.
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