A Prato gli imprenditori cinesi si fanno la repubblica autonoma.
Il faro della Procura sullo scontro economico e poi fisico tra cinesi e i dipendenti pakistani sottopagati.
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Gli imprenditori, orientali, chiedono aiuto al Consolato cinese di Firenze, ma anche a losche organizzazioni. I dipendenti si rivolgono al Sudd Cobas, un sindacato di base di sinistra
Chi vive a Prato, o conosce bene la città, la chiama “l’area grigia”. È la zona, fisica e no, in cui l’illegalità si mescola con la legalità. La legittima impresa con il lavoro nero. Il business con il riciclaggio, l’ordine costituito con l’ordine arbitrario. E autogestito. È una situazione singolare, quella che vive la terza città più grande del centro Italia. Il distretto tessile di Prato è il più grande d’Europa: 7mila imprese, 44mila lavoratori. Il polo è gestito in gran parte da cittadini di origine cinese. Che fanno impresa ma che non sempre si mantengono nei confini della legalità, soprattutto quando si tratta di rispettare i diritti dei lavoratori. Da un anno a questa parte, però, sta emergendo anche dell’altro: un sommerso che passa da una megacentrale di riciclaggio per arrivare a una guerra tra un clan storico e degli scissionisti, che miete feriti, genera incendi dolosi. E dalla quale, novità assoluta per la criminalità cinese, nascono i primi pentiti.
I tasselli del puzzle di Prato sono tanti, e non ancora tutti al loro posto. Il disegno completo ancora non si vede. Le indagini coordinate da Luca Tescaroli, che si è insediato a Prato nel 2024, stanno cercando di ricostruirlo. Basta guardare il sito della procura per vedere che gli sforzi dei magistrati pratesi sono concentrati molto su questo fronte: ci sono indagini per lo sfruttamento dei lavoratori, per lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina e, ancora, per vari episodi di violenza nella comunità cinese. L’ultima parola sarà detta nei processi, ma un’attività investigativa così folta, mai registrata prima, può consentire la ricostruzione di un fenomeno finora sconosciuto.
Dobbiamo partire dai fatti delle scorse ore per provare a muoverci in un microcosmo sospeso tra legalità e illegalità. Il sindacato Sudd Cobas aveva organizzato uno sciopero, al quale partecipavano principalmente lavoratori di origine pakistana, per rivendicare migliori condizioni di lavoro e l’applicazione del contratto del settore. In un contesto in cui si lavora sette giorni su sette ben più di otto ore al giorno il contratto sembra lontano anni luce. Durante la protesta, un gruppo di cittadini cinesi – tre sono stati fermati – ha iniziato a picchiare i lavoratori. E ferito due agenti della Digos. Una scena che racconta il mancato rispetto dei lavoratori, il disprezzo delle basilari regole del diritto di sciopero, il mancato rispetto per le istituzioni. Si tratta solo della punta dell’iceberg di un sistema ben più grande e complesso: “Il fenomeno è evidente ora, ma non è nuovo”, ci spiega una cittadina pratese.
Il problema viene da lontano, ma nell’ultimo anno è diventato ben più evidente. Per tante ragioni: il nuovo procuratore, il commissariamento del Comune. E una maggiore sindacalizzazione dei lavoratori pakistani. Questi ultimi, dicono due fonti ben informate, “hanno iniziato a rivendicare con più forza i loro diritti. E hanno cambiato gli equilibri”. L’unico sindacato che li assiste è Sudd Cobas, una realtà composta da ex attivisti per il diritto alla casa, che organizza proteste a oltranza, anche molto dure. “I confederali neanche si avvicinano”, ci spiega chi segue queste vicende da tempo.
L’uscita allo scoperto dei lavoratori sfruttati ha reso le tensioni più evidenti e acceso un faro sui metodi da caporalato novecentesco di alcuni datori di lavoro. In realtà, qualche azienda, dopo le proteste a paghe giuste e a orari di lavoro umani. Ma sono poche, solo 27, rispetto alla totalità.
Tescaroli ha raccontato bene i metodi violenti per reprimere la rivendicazione dei diritti dei lavoratori in una relazione al ministero della Giustizia. Citando in particolare una spedizione punitiva con spranghe metalliche finita con la minaccia “la prossima volta vi spariamo” ha spiegato che “sono state individuate molteplici ulteriori spedizioni punitive”.
C’è una galassia di presunti reati che gira intorno al tessile, ma va ben oltre. Nella sua relazione, Tescaroli parla anche di una sorta di banca in grado di fornire ai clienti un “servizio di pagamento tipico delle attività riservate al circuito bancario, in favore anche di organizzazioni criminali di tipo mafioso presenti sul territorio nazionale che, dall’esecuzione dei pagamenti su scala sovranazionale delle partite di stupefacente, traggono concreta agevolazione operativa in relazione all’attività illecita del narcotraffico”. Il servizio, aggiunge, è “in grado di operare la movimentazione su vasta scala di capitali di origine illecita e di permetterne il reimpiego”.
Sullo sfondo resta un’altra zona grigia: i rapporti degli imprenditori cinesi di Prato con le istituzioni di Pechino. Un documento su Wechat, l’app di social e messaggistica usata molto in Cina, ha lasciato sgomenti anche i più avvezzi alla materia. Molti giornali toscani danno notizia di questo documento. In sostanza gli imprenditori cinesi di Prato, irritati per le rivendicazioni dei lavoratori, hanno chiamato in ballo le autorità cinesi: “Il nostro sostegno è il Consolato generale della Repubblica popolare cinese a Firenze! Attraverso comunicazioni e sforzi preliminari, il Consolato ha indicato l’unica strada corretta ed efficace per la nostra lotta. Ora, dobbiamo unirci”. Queste parole hanno messo in allarme in particolare Fratelli d’Italia, che vuole approfondire. E che aprono a un mondo di possibilità singolari, non escludendo interessi del governo cinese in Italia. E a Prato. Interessi che erano già stati adombrati quando era emersa, nel 2022, la presenza di una stazione di Polizia cinese. Formalmente, si trattava di un servizio “d’oltremare” utile a “facilitare i cinesi residenti in Italia a gestire vari affari domestici”. Questa rassicurazione non è bastata a placare gli interrogativi di una parte dell’opinione pubblica.
Tutto questo, però, è un contorno. Il cuore delle vicende pratesi batte nel tessile e nel settore satellite detto “delle grucce”. Della logistica, cioè, che segue il solco del principale. Nella legalità e nell’illegalità. La commissione Lavoro della Camera, presieduta da Walter Rizzetto, si è interessata dello sfruttamento dei lavoratori. In una relazione sul tema, viene chiesto al governo di incentivare la protezione dei testimoni. Di quei lavoratori che, cioè, denunciano il caporalato cinese. E che necessitano di tutele rafforzate. I commissari chiedono inoltre di disporre direttamente in amministrazione controllata le aziende che più volte sono state sanzionate perché fuori legge.
Ieri Rizzetto ha auspicato misure nell’Aula della Camera, dove la vicenda ha fatto irruzione. L’opposizione ha chiesto un’informativa del ministro delle Imprese Adolfo Urso. La maggioranza ha ricordato che Prato è stata amministrata per tanti anni dal centrosinistra, che la sindaca, Ilaria Bugetti, si è dimessa perché accusata di corruzione. Secondo l’accusa avrebbe favorito un imprenditore del tessile. Incrociata da HuffPost nel Transatlantico di Montecitorio, la deputata pratese di Forza Italia, Erika Mazzetti, accusa: “Da 20 anni assistiamo a un’escalation di fenomeni strani tra le varie comunità presenti in città. Da sempre il centrodestra li denuncia, mentre il centrosinistra, che ha governato 10 anni, dice che è un problema di percezione. Ci chiediamo chi abbia davvero governato la città in questi anni”. L’ex sindaco di Prato, Matteo Biffoni, mister preferenze per il Partito democratico alle ultime regionali, si tiene lontano dalle polemiche. E, raggiunto da HuffPost, commenta: “Il rispetto dei diritti dei lavoratori non è negoziabile. Finché non ci sarà questo, ogni discussione ci fa solo girare intorno al problema. Detto ciò, la violenza cui abbiamo assistito ieri non può trovare albergo in nessuna civiltà”.
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