Anno: XXVI - Numero 216    
Lunedì 10 Novembre 2025 ore 13:30
Resta aggiornato:

Home » Crisi demografica e previdenza: l’Italia verso il collasso generazionale

Crisi demografica e previdenza: l’Italia verso il collasso generazionale

L’invecchiamento della popolazione e il calo dei giovani mettono a rischio la sostenibilità delle Casse di previdenza e dell’intero sistema pensionistico italiano.

Crisi demografica e previdenza: l’Italia verso il collasso generazionale

L’indice di dipendenza, insegna l’ISTAT, si ottiene rapportando la popolazione residente al 1° gennaio in età non attiva (da 0 a 14 anni e da 65 anni e oltre) sulla popolazione in età lavorativa (da 15 a 64 anni).

Questo rapporto, che viene generalmente moltiplicato per 100, misura il carico demografico che grava sulla popolazione in età attiva.

Valori superiori al 50% indicano una situazione di squilibrio generazionale.

In Italia, ma non solo in Italia, la dinamica demografica continua ad essere negativa.

La popolazione in Italia al 1° gennaio 2024 è di 58,934 milioni di residenti dei quali, 5,4 milioni sono stranieri.

La fecondità è ai minimi storici con 1,18 figli per donna.

Cresce invece la speranza di vita che è di 83,4 anni alla nascita (valore medio tra maschi e femmine).

Il progressivo invecchiamento della popolazione rappresenta una delle trasformazioni demografiche più significative in atto in Italia con ricadute sul mercato del lavoro molto rilevanti.

Dice l’ISTAT, nelle sue previsioni delle forze di lavoro al 2050, base 1° gennaio 2024, che “dall’inizio degli anni 2000, la quota di popolazione residente di 15-64 anni sul totale della popolazione si è ridotta dal 66,7% nel 2004 al 63,5% nel 2024 (meno 3,2 punti percentuali) e si prevede che scenderà al 54,3% nel 2050 (meno 9,1 punti percentuali rispetto al 2024). In questo stesso periodo per gli uomini la quota di 15-64enni è scesa dal 68,6% nel 2004 al 65,2% nel 2024 e arriverà al 57,1% nel 2050; le donne in età lavorativa sono diminuite da 64,9% a 61,8% e raggiungeranno il 51,6% della popolazione femminile nel 2050”.

E veniamo ora alla ricaduta di questo fenomeno demografico sulle Casse di previdenza dei professionisti italiani e, di seguito, sulla Gestione Separata dell’INPS.

Per quanto riguarda il settore degli autonomi, il fenomeno dell’invecchiamento della forza lavoro è ben esemplificato dai dati relativi agli iscritti alle Casse Privatizzate che fungono da primo pilastro previdenziale per i liberi professionisti. In base al Rapporto AdEPP 2024, il numero complessivo degli iscritti nel 2023 ha raggiunto la cifra di 1.609.158 persone, frutto di due dinamiche differenti: da un lato, un leggero calo dello 0,36% del numero di contribuenti attivi non pensionati, dall’altro, un incremento marcato del 7,98% dei pensionati attivi, categoria che ha raggiunto quota 119.228 individui.” (Aggiungo io: Il numero di pensionati nel 2024 è pari a 531.787 in aumento del 4,76% rispetto al 2023 con la conseguenza che il rapporto iscritti/pensionati scende a 3,48 attivi per pensionati quando solo nel 2022 era del 3,82 con la ulteriore conseguenza negativa che il rapporto tra contributi e prestazioni si attesta a 1,49 in continua flessione rispetto agli anni precedenti. Questo sta a significare che tra pochi anni le entrate contributive non saranno più’ sufficienti per pagare le pensioni e si dovrà attingere prima al rendimento del patrimonio e poi al patrimonio stesso.) Allargando il periodo di analisi si nota come tra il 2005 e il 2023 il numero di contribuenti attivi sia cresciuto del 19,07%, mentre quello dei pensionati attivi ha segnato un +183,42%, con un peso sul totale passato dal 3,3% al 7,4%. Un trend ulteriormente rimarcato dal fatto che la percentuale di professionisti over 60 è quasi raddoppiata negli ultimi 19 anni, passando da circa il 10% a oltre il 20%, mentre all’opposto quella di under 40 è diminuita dal 41% a circa il 27%. La fascia degli iscritti con età compresa tra i 60 ed i 70 anni, che nel 2005 rappresentava il 7,2% del totale degli iscritti, è aumentata al 17,4% nel 2023 e quella tra i 50 e i 60 anni è passata dal 18% del totale al 25,3%. Nel complesso, gli iscritti tra i 50 e i 60 anni costituiscono oggi il gruppo più numeroso, seguiti da quelli tra i 40 e i 50 anni: queste due fasce rappresentano oltre il 50% degli iscritti. Numeri che, insieme alla crescita dei pensionati attivi, evidenziano il prolungamento della vita lavorativa e un cambiamento culturale e strutturale che, sottolinea l’AdEPP, suggerisce la necessità di politiche previdenziali e lavorative che tengano conto di una forza lavoro sempre più diversificata per età e modalità di esercizio della professione. I dati sopra descritti mettono infatti in risalto una problematica che, pur tenendo conto delle differenze tra lavoratori autonomi e dipendenti, li accomuna: un numero crescente di individui anziani rispetto ai giovani e un carico previdenziale sempre più gravoso sulle generazioni attive che richiedono interventi mirati a equilibrare i rapporti generazionali, garantendo la sostenibilità nel lungo periodo.” (Fonte: Lavoro indipendente e invecchiamento: il caso delle Casse di Previdenza di Bruno Bernasconi, Centro studi e ricerche, Itinerari Previdenziali, 21.01.2025).

Per contro i lavoratori autonomi in Gestione Separata INPS sono in forte aumento.

La crescita è trasversale e coinvolge diverse fasce di età, con un’età media stabile a 44 anni e oltre il 50% dei professionisti concentrati tra i 25 e 44 anni.

Nel 2015 il totale degli iscritti alla Gestione Separata Inps erano 323.172 che sono aumentati del 68%, arrivando nel 2024 a quota 544.118.

Nonostante questa progressione demografica, il welfare risulta inadeguato perché le simulazioni condotte mostrano che un professionista che inizia a contribuire a 30 anni e va in pensione a 67 riceverà un assegno pari a meno della metà del suo reddito finale con un tasso di sostituzione lordo che si ferma intorno al 45-46%, mentre quello netto scende al 40% per i redditi medi.

Il dato emerge dal Rapporto sui professionisti in Gestione Separata INPS, presentato recentemente da Confcommercio professioni a Roma.

Il futuro previdenziale per entrambe queste categorie di professionisti è quindi molto preoccupante.

E il dato diventa ancora più allarmante se consideriamo la speranza di vita, non già alla nascita, che nel 2024 è di 81,4 anni per gli uomini e di 85,5 per le donne (media 83,4 di cui in premessa), bensì al momento del pensionamento e cioè a 65 anni che è di 21,213, a 70 anni che è di 17,101 e a 77 anni di 11,829 quindi con un incremento della spesa previdenziale.

Se a questo aggiungiamo che tra venti anni circa il rapporto attivi v pensionati sarà di 1 a 1, il futuro pensionistico delle Casse di previdenza necessità, sin da oggi, di una rimodulazione che, a mio giudizio, sarebbe quella, quantomeno, di accorpare le forze per affrontare la sfida demografica e reddituale.

Ma non mi pare che il management delle varie Casse se ne faccia carico, confidando sul rendimento del patrimonio accumulato attraverso investimenti sempre piu’ rischiosi, per generare alpha nel lungo periodo, dove alpha significa cercare di ottenere un rendimento extra, rispetto a un indice di riferimento (il benchmark), con un alpha positivo che indica una sovraperformance.

Una conferma di tutto ciò dal Centro studi del Senato sulla legge di bilancio per il 2026 il quale nel commento all’art. 43 scrive: “La RT premette che le proiezioni demografiche a medio e lungo termine rilasciate a luglio 2025 dall’ISTAT (previsioni della popolazione italiana scenario mediano – base 2024) confermano che la popolazione italiana diventerà sempre più anziana nei prossimi decenni. Si prevede, infatti, che la popolazione totale non solo diminuirà nel lungo termine, ma subirà anche un cambiamento significativo nella sua struttura per età.

Secondo tali previsioni:

– la popolazione italiana complessiva è destinata a diminuire del 23,2% tra il 2020 (circa 59,6 milioni) e il 2080 (circa 45,8 milioni);

– la popolazione in età lavorativa (15-64 anni) diminuirà in modo ancora più marcato, passando da 38,1 milioni nel 2020 a 24,4 milioni nel 2080 (con una contrazione del 36%);

– l’indice di dipendenza degli anziani è previsto aumentare con una rapidità e una dimensione senza precedenti nei prossimi venti anni: è previsto aumentare dal valore di 38 del 2024 al valore di 61 nel 2044 e attestarsi a 67 nel 2080.

L’invecchiamento della popolazione comporterà un significativo aumento dell’età media: la popolazione prevista nel 2080 è sensibilmente inferiore alla popolazione del 2020 nelle classi di età comprese tra 0 e 64 anni; al contrario, nelle classi di età di 65 anni e oltre, la popolazione prevista nel 2080 è superiore a quella del 2020”.

“Con un indice di dipendenza dagli anziani destinato a toccare il 67%, per mantenere in piedi il sistema “a ripartizione” i contributi dovrebbero crescere come la quota dei pensionati: dal 33% (come è noto molto inferiore per le Casse di Previdenza) della retribuzione lorda di oggi al 57% nel 2040, fino al 67% nel 2080. Una prospettiva insostenibile per i lavoratori e per l’intero modello economico”. (Da un articolo di Daniele Cirioli su Italia Oggi del 5 novembre 2025).

Ancora più insostenibile per tutti i professionisti italiani e per il sistema Casse di Previdenza.

Per completezza allego il link per accedere al Rapporto n. 26/2025 della ragioneria Generale dello Stato

https://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Spesa-soci/Attivita_di_previsione_RGS/2025/Rapporto-2025-n.26_Capitolo-1.pdf

“Alessandro Rosina è professore ordinario di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano e coordinatore scientifico dell’Osservatorio permanente sulle nuove generazioni promosso dall’Istituto G. Toniolo in collaborazione con Fondazione Cariplo. Ha appena pubblicato per Chiarelettere un libro su un tema cruciale: le implicazioni sociali della crisi demografica. Il libro si chiama La scomparsa dei giovani – Le 10 mappe che spiegano il declino demografico dell’Italia. Ha accettato di scrivere per Appunti un pezzo per presentarne le tesi. Buona lettura. Stefano Feltri”.

“Nelle società tradizionali del passato i giovani erano la parte più consistente della popolazione. La transizione demografica, nella sua prima fase, ha reso ancora più numerose le nuove generazioni grazie alla riduzione della mortalità in età infantile e giovanile; in fase avanzata tende invece a far prevalere la popolazione anziana, perché i guadagni di sopravvivenza si spostano nelle età più mature e perché si riduce la fecondità.

L’Italia, insieme al resto del mondo occidentale, ha vissuto la sua fase di maggior spinta alla crescita – favorita dal passaggio dall’economia agricola a quella industriale e dall’abbondante presenza di giovani – nei primi decenni del secondo dopoguerra. Una fase di riempimento materiale e simbolico che ha creato una società con accesso aperto al benessere di massa.

La fase con impatto più favorevole della demografia sull’economia è nota come «dividendo demografico». Corrisponde alla situazione in cui la base demografica si restringe, ma le generazioni più consistenti sono ancora in piena età lavorativa.

Si perde tale dividendo nel momento in cui le coorti nate quando il tasso di fecondità era sensibilmente superiore ai due figli per donna entrano in età anziana e sono sostituite in età adulta da quelle successive, nate quando si è scesi attorno o sotto la soglia di equilibrio generazionale.

Il caso Italia

Tutti i Paesi nella fase più avanzata della transizione demografica si trovano in una condizione nuova, che impone la necessità di ripensare il modello di sviluppo con una popolazione che non cresce e si va sbilanciando verso le età più mature.

L’Italia, però, si è scoperta più fragile nel gestire questo passaggio storico con la conseguenza che la transizione si è trasformata in crisi demografica: meno degli altri Paesi, ciò che non funzionava del secolo precedente è diventato spazio strategico per il nuovo, cogliendo le opportunità delle sfide dei cambiamenti di questo secolo.

Lo svuotamento della popolazione al centro dell’età lavorativa può efficacemente essere misurato dal confronto tra gli attuali 45-49enni, che nel 2050 saranno in età anziana, con i 20-24enni di oggi, che nel 2050 avranno 45-49 anni.

I dati sono i seguenti: oggi i 20-24enni sono meno di 3 milioni, i 45-49enni sono circa 4,2 milioni. Secondo lo scenario mediano delle previsioni Istat gli attuali 20-24 saliranno, grazie ai flussi migratori, a poco meno di 3,5 milioni quando nel 2050 avranno 45-49 anni. L’immigrazione potrà, pertanto, limitare in parte la perdita di popolazione in età lavorativa.

Va inoltre considerato che le generazioni demograficamente più consistenti, quelle che attualmente hanno dai 50 anni in su, arriveranno a 75 anni e oltre nel prossimo quarto di secolo. Questo farà sì che l’età demograficamente più popolosa sarà quella dei 75enni: secondo le previsioni saranno oltre 800 mila, mentre sotto i 65 anni la popolazione in ogni singola età sarà inferiore a 700 mila; sotto i 35 anni si scenderà a meno di 600 mila e sotto i 25 anni non si arriverà a 450 mila.

Questo svuotamento sotto i 75 anni e, in particolare, nelle età lavorative centrali, sarà più accentuato in Italia rispetto ai paesi con i quali ci confrontiamo. Il rapporto tra 20-24enni e 45-49enni è pari al 95 per cento in Francia e attorno al 90 per cento in Germania; la media dell’Unione europea è sopra il 75 per cento, mentre è del 67 per cento in Italia.

I dati Istat indicano una popolazione nel 2025 tra i 25 e i 34 anni attorno a circa 6,3 milioni di individui, pari al 10,6 per cento della popolazione totale. Negli ultimi vent’anni questa fascia è diminuita di 2,3 milioni, passando dagli oltre 8,6 milioni del 2004 (quando rappresentava quasi il 15 per cento della popolazione totale) ai livelli attuali. Mai, nella storia recente del nostro paese, la popolazione in ingresso nella vita adulta è stata così numericamente esigua.

Gli occupati nella stessa fascia d’età, come mostrano i dati del Rapporto Cnel Demografia e Forza lavoro, sono scesi da oltre 6 milioni a circa 4,2 milioni. In termini relativi, la quota dei giovani-adulti tra i lavoratori è diminuita dal 27,1 per cento al 17,8 per cento.

Una riduzione che evidenzia non solo il calo quantitativo delle nuove generazioni – più marcato rispetto alla media europea – ma rivela anche l’incapacità del paese di adottare strategie efficaci per compensare la contrazione demografica con miglior ingresso e peso nel mondo del lavoro.

L’indicatore che misura il rapporto tra anziani e popolazione in età attiva, chiamato “indice di dipendenza anziani”, è tra quelli che stanno ricevendo più attenzione da parte delle economie mature avanzate.

Se tale rapporto aumenta significa che nella bilancia demografica il peso si sposta dal piatto dell’età in cui si fa crescere l’economia (e si fa funzionare il sistema di welfare) a quello dell’età in cui maggiormente si assorbono risorse pubbliche per salute, assistenza e pensioni.

Se fino agli anni più recenti ad alimentare la crescita dell’indice di dipendenza degli anziani è stato soprattutto l’aumento del numeratore (le persone di 65 anni e oltre), da qualche anno a contribuire alla spinta verso l’alto è sempre più la riduzione del denominatore (le persone in età da lavoro). Aumenta, insomma, l’azione del degiovanimento (riduzione dei giovani) rispetto a quella dell’invecchiamento in senso proprio (aumento degli anziani).

L’Ue-27 deve prepararsi a rendere sostenibile un rapporto tra gli over 65 e la fascia 20-64 che arriverà a superare il 50 per cento nel 2045. Il tasso di dipendenza degli anziani è già attualmente oltre il 40 per cento per l’Italia e, secondo le previsioni Eurostat, rimarrà sopra la media europea assestandosi attorno al 66 per cento nel 2070.

Se si mette direttamente in relazione chi è in pensione con chi lavora (“indice di dipendenza economica”), il carico risulta superiore al 60 per cento in Italia ed è in assoluto il peggiore in Europa (la media Ue è inferiore di 15 punti percentuali), con la prospettiva di arrivare all’80 per cento nel 2070 (il valore più alto con Grecia e Portogallo).

Si tratta di un dato che condannerebbe il nostro Paese a una condizione di svantaggio competitivo rispetto agli altri paesi con cui ci confrontiamo, con un maggior vincolo alla crescita e alla sostenibilità del sistema di welfare pubblico.

A fronte delle dinamiche sin qui descritte, che stanno portando, appunto, a un inedito indebolimento della forza lavoro potenziale, diventa strategico l’uso efficiente della popolazione in età attiva.

Va soprattutto riconosciuto che gli squilibri quantitativi e qualitativi si rafforzano reciprocamente, creando un circolo vizioso.

Da un lato, la riduzione numerica delle giovani generazioni limita la capacità di finanziare il sistema di welfare pubblico, farlo funzionare con adeguato personale, rispondere ai fabbisogni delle imprese.

Dall’altro, il basso investimento nella qualità dei percorsi formativi e professionali delle nuove generazioni indebolisce ulteriormente la loro capacità di contribuire ai processi di innovazione e sviluppo, oltre che la possibilità di realizzare i propri progetti di vita e mettere le basi di una solida lunga vita attiva.

Questo quadro, se non affrontato, rischia di compromettere la capacità dell’Italia di attrarre e trattenere giovani talenti, aggravando ulteriormente il degiovanimento del paese e gli squilibri demografici.

La stessa immigrazione, fondamentale per compensare la difficoltà di trovare manodopera in molti settori, produce effetti positivi su produttività e natalità se si investe in integrazione, in politiche abitative e misure di conciliazione.

Non ci sono soluzioni facili

Non manca oggi chi pensa che tali squilibri possano trovare meccanicamente risposta con l’automazione e l’intelligenza artificiale. Resta il fatto che Giappone, Corea del Sud e la stessa Cina, pur investendo molto più dell’Italia su formazione e innovazione sono fortemente preoccupati per la loro crisi demografica.

È molto più verosimile che, se si va verso il quadro qui sopra delineato, siano piuttosto i giovani, indipendentemente dalla nascita, a riallocarsi nei Paesi meno sbilanciati nel rapporto tra generazioni, in grado di fornire un sistema di welfare più solido, con maggiori prospettive di valorizzazione delle competenze avanzate nei settori più innovativi e dinamici.

Detto in altre parole, se non si mettono in campo politiche trasformative, in grado di dare nuova direzione al Paese, la prospettiva non è la deriva della nave Italia – senza più margini di manovra e quindi ingovernabile – ma l’affondamento per lo sbilanciamento del carico che la rende instabile e sempre più esposta al rischio di rovesciarsi alla prima tempesta esterna. Nel momento del «si salvi chi può» i pochi giovani rimasti potranno andarsene.

Il destino peggiore è quello degli anziani. Un paese senza anziani ha difficoltà a funzionare perché manca l’esperienza, ma un paese senza giovani semplicemente collassa.

Occorre acquisire solidamente la consapevolezza che si può vivere dignitosamente nelle fasi più avanzate solo se si possono attraversare bene tutte le età della vita e se rimane solido il rapporto tra generazioni. Proprio da questa considerazione è necessario partire per la costruzione di uno scenario alternativo, sostenibile e coerente con i processi di cambiamento di questo secolo.

Entrare nella seconda metà del XXI secolo con un Paese che non subisce passivamente l’inerzia demografica negativa ma nel quale le scelte, l’impegno e la formazione portano a un miglioramento della qualità di vita e lavorativa che riduce l’impatto negativo degli squilibri demografici attuali e futuri (rendendo più sostenibile il rapporto tra generazioni), è ancora possibile.

Non è attualmente lo scenario più probabile, ma è anche vero che la possibilità che si realizzi dipende dalle scelte individuali e collettive dei cittadini italiani, non da eventi esterni.”

© Riproduzione riservata

Iscriviti alla newsletter!Ricevi gli aggiornamenti settimanali delle notizie più importanti tra cui: articoli, video, eventi, corsi di formazione e libri inerenti la tua professione.

ISCRIVITI

Altre Notizie della sezione

Enpapi Point: tutta l’assistenza territoriale con un clic

Enpapi Point: tutta l’assistenza territoriale con un clic

10 Novembre 2025

L’Ente vuole offrire una diversa e più capillare presenza sul territorio e assicurare una maggior vicinanza alla platea assicurata.L’Ente vuole offrire una diversa e più capillare presenza sul territorio e assicurare una maggior vicinanza alla platea assicurata.

Archivio sezione

Commenti


×

Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie.