Anno: XXVI - Numero 203    
Mercoledì 22 Ottobre 2025 ore 14:15
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Il bilancio dello Stato alla prova della politica

Nel dibattito politico, tra chi esalta Giorgia Maloni, qualunque cosa faccia o dica, e chi la denigra sistematicamente, pochi, a destra e a sinistra, commentano e annotano le vicende del Governo e della sua maggioranza con serenità e senso della misura.

Il bilancio dello Stato alla prova della politica

Tra i più attenti alle vicende della politica, Claudio Velardi, direttore de Il Riformista, pressoché quotidianamente, offre alla discussione valutazioni, frutto di un’esperienza ormai pluridecennale nell’osservazione delle scelte politiche, alle quali volentieri più volte mi sono riferito.

Nelle ultime ore Velardi è intervenuto sul tema del bilancio di previsione dello Stato per l’esercizio finanziario 2026, in termini che mi danno l’occasione di qualche riflessione sulla politica generale del Governo. Ad esempio, quando dice che “ogni autunno sembra che l’Italia viva solo per la legge di bilancio”, fotografa la realtà del dibattito del quale i lettori di giornali e i fruitori dei telegiornali sono consapevoli. Tutti, governo, opposizioni, sindacati e giornali impegnati “a litigare su cifre, bonus pensioni, tagli. Ma la verità è che oggi una finanziaria – dice Velardi – conta pochissimo nella vita di un paese e del nostro Paese in particolare. Il margine di manovra su cui può operare è minimo”. E ce ne ricorda le cifre, poche ma significative: “lo Stato spende circa 1000 miliardi all’anno. Una finanziaria ne può muovere 30 – 35 al massimo, meno del 3% del totale mentre il resto è già deciso, pensioni sanità stipendi pubblici interessi sul debito. Solo le pensioni valgono quasi il 16% del PIL, la sanità il 9, gli interessi il 4 e sono spese obbligatorie che nessun governo può toccare senza far saltare tutto. E allora ogni autunno si litiga sulle briciole, bonus, detrazioni, tagli minimi, tanto rumore per spostare qualche miliardo in un bilancio da 1000 perché la verità è che appunto il 97% del bilancio dello Stato è già scritto. La politica discute di quei 3% che resta, ma tutti continuiamo a far finta che dalla legge di bilancio passi il destino dell’Italia. Semplicemente non è vero”.

L’analisi delle cifre che offre Velardi è vera, come il quadro d’insieme che descrive, ma in politica non è sufficiente. In primo luogo dobbiamo ricordare che, ancorché si parli di “finanziaria”, la legge “di bilancio”, predisposta dal governo e che il Parlamento dovrà esaminare ed approvare necessariamente entro il 31 dicembre, perché non scatti l’esercizio provvisorio del bilancio per il 2026, non è la vecchia legge “formale”, che un tempo si limitava a prendere atto della preesistente legislazione di spesa e di entrata in attesa delle modifiche che avrebbe introdotto la legge “finanziaria”, poi “di stabilità”. Oggi la legge di bilancio contiene norme che modificano aliquote tributarie, tassano o detassano dei redditi. Tant’è vero che in questi giorni si è sviluppata una polemica sulla tassa sugli affitti brevi che il governo vorrebbe portare dal 21 al 26%. Misura contestata da chi ritiene che in un Paese che si propone di migliorare l’offerta turistica anche attraverso affitti brevi, di qualche giorno o di qualche settimana, tassare questa forma di reddito viene considerato un errore, un disincentivo rispetto ad una diffusa azione economica. 

E allora questo bilancio, che gli esperti definiscono “rigido”, in quanto la spesa non è facilmente comprimibile ed è effettivamente – non come dice Velardi – un falso problema ma è il vero problema del Paese, nel senso che la legge di bilancio è la legge fondamentale per il funzionamento dell’economia. La manovra è limitata certamente ma solo perché non c’è volontà politica di modificare il quadro di riferimento, delle spese e delle entrate. Non per cattiva volontà, ovviamente, ma perché è difficile modificare un sistema consolidato nel tempo, basti pensare per esempio che le spese attengono a opere pubbliche già programmate, spese sulle quali si può fare qualche manovra nel senso che si può prevedere in relazione ai tempi di realizzazione degli interventi una parziale, diversa utilizzazione della somma accantonata. Oppure si possono prevedere risparmi utilizzando in modo più congruo le risorse destinate all’acquisto di beni e servizi. Ci sono certamente dei servizi che non possono essere compressi ma forse potrebbero costare di meno. Se prendiamo in considerazione tutta l’attività contrattuale dello Stato, che è enorme e che si realizza attraverso spese di centinaia di miliardi, potremmo arrivare a risparmi significativi se le opere fossero realizzate, ad esempio, nei tempi previsti, se non ci fossero quei famosi rinvii per cui l’imprenditore si assicura un appalto, apre il cantiere e il giorno dopo lo chiude in attesa di verificare che ci sia la “sorpresa geologica” o se “scopre” che i materiali previsti sono inadatti, tutte vicende che fanno lievitare i costi. Sappiamo, lo si dice da decenni, che un chilometro di strada o di ferrovia in Italia costa più, molto di più che in altri paesi.

Allora cosa fanno i governi virtuosi, come vorrebbe essere questo della Meloni? Riducono la spesa facendo i tagli cosiddetti “lineari”, che interessano tutti i ministeri. Si toglie a tutti il 2% il 3% del budget annuale. Ed è ovviamente una misura rozza, perché non consente quella riduzione selettiva che invece potrebbe essere acquisita diversamente.

Poi c’è tutto un problema delle forniture. Quando alcuni “governatori”, come pomposamente si vogliono far chiamare i Presidenti di alcune regioni, del Nord in particolare, per esempio che forniscono attraverso l’artigianato e l’industria locale materiali alla pubblica amministrazione fossero improvvisamente privati di parte delle forniture delle imprese locali ci sarebbero problemi di occupazione e quindi probabilmente lo Stato dovrebbe intervenire altrimenti.

Tutto questo per dire che il bilancio è sì rigido ma se ci fosse un monitoraggio costante e autorevole dell’attività della pubblica amministrazione si potrebbe, senza danneggiare nessun fornitore, ridurre gli oneri diversificando gli acquisti attuando delle economie. In contemporanea, ricordo ancora una volta, che quando non ci sono molte risorse da distribuire, sarebbe opportuno che la Pubblica Amministrazione semplificasse le procedure per rendere al cittadino dei servizi in termini di costi e di efficienza. Perché certamente al cittadino farebbe più comodo, al posto di qualche decina di euro in più, ottenere dei servizi efficienti. Ma questo richiede una salda gestione della spesa pubblica. Ci vorrebbe un Einaudi che dopo la guerra, da Ministro del bilancio, un ministero che fu istituito appositamente per lui, secondo le sue indicazioni, ebbe la capacità e la volontà politica di realizzare rapidamente una revisione della spesa pubblica.

Non è mai troppo tardi.

 

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