Quando il sessismo conviene, si grida allo scandalo. Quando no, si parla di equivoco.
La morale a orologeria della politica italiana, tra corti, cortigiani e cortigianerie d’occasione.
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C’è un’Italia che si offende solo il martedì. È quella che, davanti a un insulto, non guarda tanto alla parola quanto al mittente. Se viene da un compagno, si chiama “equivoco”; se parte da un avversario, diventa “sessismo”. È la Repubblica delle doppie misure, delle indignazioni a turno, dei travasi di bile programmati a seconda del colore politico. Il caso Landini–Meloni è solo l’ultimo episodio di questa tragicommedia nazionale in cui il linguaggio è sempre un pretesto e mai un problema. Maurizio Landini, segretario della CGIL, quello che dovrebbe parlare di contratti, salari e diritti, stavolta si è messo in bocca una parola troppo grossa per la sua sintassi: “cortigiana”. La Premier Giorgia Meloni, che di mestiere trasforma le offese in spot elettorali, ha colto la palla al balzo e ne ha fatto il solito manifesto sulla “sinistra ipocrita che disprezza le donne”. E in mezzo, come sempre, il Paese che ride, sbuffa, e cambia canale.
Ora, diciamolo: se Landini avesse voluto davvero insultare Meloni in modo sessista, non avrebbe scelto “cortigiana”. È un termine troppo da romanzo storico per un uomo che parla come una sirena antincendio. Ma il punto non è se avesse o meno intenzione di offendere. Il punto è che la politica italiana è diventata un reality show della grammatica morale. A destra si contano i decibel dell’indignazione a seconda del bersaglio. Quando un certo Donald Trump, in mondovisione, raccontava di “afferrare le donne per la fica”, la nostra premier non si mise il lutto. Anzi, gli strinse la mano e sorrise per la foto di rito. Ma se un sindacalista usa una parola ambigua in diretta su La7, allora sì, il patriarcato torna a minacciare Palazzo Chigi. A sinistra, invece, l’ipocrisia ha un altro sapore: quello dell’autodifesa di classe. Quando a sbagliare è “uno dei nostri”, si parla subito di “grande equivoco”, “parola infelice”, “fraintendimento lessicale”. Laura Boldrini, in servizio permanente effettivo contro il linguaggio sessista, stavolta si è fatta maestra di semantica: “Landini voleva dire cortigiano, non cortigiana”. Come dire: il maschilismo è solo questione di vocale finale.
La verità, purtroppo, è più semplice e più amara. Il linguaggio sessista non è un incidente: è lo specchio di una cultura politica che usa le parole come manganelli e scudi, mai come strumenti di pensiero. In Italia, “sessismo” è diventato un’arma retorica a intermittenza, buona per colpire l’avversario e assolvere l’alleato. Non è una battaglia culturale, ma un espediente da talk show. Quando serve, il femminismo è bandiera; quando non serve, è zavorra. Quando un politico di sinistra sbaglia verbo, la colpa è dell’“equivoco”; quando lo fa un leghista, è “una vergogna patriarcale”. Così la questione di genere, invece di unire, diventa l’ennesima fossa da trincea. Nel frattempo, le donne in politica restano poche, pagate meno, insultate di più e ascoltate di meno. Ma su questo, destra e sinistra preferiscono tacere. Perché non fa share.
Giorgia Meloni, dal canto suo, ha imparato alla perfezione la lezione del populismo 2.0: mai sprecare un insulto, trasformalo in carburante. Ogni volta che qualcuno la attacca, lei non risponde: rilancia. Pubblica il dizionario, twitta l’indignazione, convoca il popolo della rete, e in un’ora il “caso” diventa trending topic. È un talento politico indiscutibile, ma anche un segno dei tempi: l’Italia del 2025 si governa con i meme più che con le leggi. Meloni ha capito che il vittimismo funziona più della forza. È riuscita nell’impresa di presentarsi contemporaneamente come simbolo di potere e vittima di esso. Una donna al comando che parla come se fosse ogni giorno sotto assedio. E a furia di recitare questo doppio ruolo, si è costruita un personaggio perfetto per l’epoca dei like: la regina perseguitata.
Landini invece è rimasto al Novecento. Il suo linguaggio sa di bulloni e piazze, non di algoritmi. Non ha capito che nel 2025, prima di parlare, bisogna aggiornare il dizionario politico su Google Trends. Quando ha detto “cortigiana”, pensava di citare la corte di Versailles; ma nell’Italia dei social, ogni parola è un’arma a frammentazione semantica. Forse, più che scusarsi, Landini dovrebbe ringraziare: da mesi nessuno parlava di lui, ora è tornato al centro del dibattito. A suo modo, anche questo è un risultato sindacale.
Il problema, però, è collettivo. La destra brandisce la parità di genere solo quando serve a difendere una donna di destra; la sinistra, solo quando serve ad attaccarne una di destra. È una staffetta ipocrita, una gara a chi si indigna meglio. Ma il sessismo, quello vero, è ancora lì: nei titoli di certi giornali, nelle allusioni ai vestiti, nel giudicare le donne per il tono di voce o per l’età, non per le idee. Meloni non merita insulti sessisti. Ma non merita neanche di usarli come scudo politico. E Landini non è un misogino. Ma neanche un martire. È solo l’ennesimo protagonista di una commedia linguistica che va in scena tutte le settimane, cambiando attori ma non copione.
Viviamo in un Paese dove la morale è sempre “a targhe alterne”: un giorno si indigna la destra, il giorno dopo la sinistra. Oggi il sessismo è un problema; domani diventa un’invenzione dei giornali. La stessa parola, “cortigiana”, può essere scandalo o malinteso a seconda di chi la pronuncia. Il risultato è che nessuno si assume mai la responsabilità del proprio linguaggio. Eppure, in un’epoca in cui ogni frase resta incisa per sempre su internet, la politica continua a parlare come se fosse ancora al bar.
C’è poi la grande scenografia mediatica. Talk show, social, editoriali, tutti pronti a sezionare la parola “cortigiana” come fosse un reperto archeologico. Floris fa la domanda perfetta, Landini cade nella trappola perfetta, Meloni risponde con la reazione perfetta. È un copione impeccabile, dove ognuno recita la parte assegnata. E intanto, mentre i giornali si riempiono di analisi linguistiche, il governo prepara la manovra, i sindacati pensano allo sciopero, e il Paese reale tira a campare. Il teatrino del linguaggio serve proprio a questo: a distrarre.
A ben vedere, “cortigiana” non è la parola sbagliata: è la metafora perfetta del nostro sistema politico. Viviamo in un’Italia di corti e cortigiani, dove il potere si misura in fedeltà, non in idee. Che sia la corte di Trump o quella di Bruxelles, quella di Palazzo Chigi o quella di Viale Mazzini, l’importante è stare vicino al trono. E in questo, Landini non ha sbagliato: ha solo detto una verità che suona male perché tocca il nervo scoperto di tutti.
Dopo la bufera, sono arrivate le solite scuse condizionate, le spiegazioni, le interpretazioni. Tutto già visto. La sinistra dice che è stata una “parola infelice”. La destra pretende scuse “alle donne italiane”. La Premier ne approfitta per postare un altro tweet trionfale. Nessuno, però, si chiede perché la discussione pubblica sia ridotta a una partita di parole crociate. Il linguaggio politico italiano è diventato una discarica di cliché, slogan e doppi sensi. Ogni volta che si prova a dire qualcosa di serio, si viene travolti da un’ondata di indignazione prefabbricata. Forse è per questo che le parole non contano più, e chi le usa meglio non è chi ha ragione, ma chi sa trasformarle in show.
Forse, alla fine, Landini aveva ragione. Siamo davvero un Paese di cortigiani. Cortigiani del potere, dell’opinione pubblica, del consenso. Cortigiani delle parole, che le usiamo per farci belli o per colpire gli altri, mai per capire qualcosa di noi stessi. Finché la politica continuerà a trattare il linguaggio come un’arma e non come una responsabilità, ogni parola sarà un proiettile. E ogni dibattito, una rissa. Perché il vero problema non è dire “cortigiana”. Il vero problema è che, a forza di fingere di non essere cortigiani, lo siamo diventati tutti.
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