Le sinistre e il coraggio che non c’è
Predicano fermezza morale, ma tremano davanti a un microfono.
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C’è una virtù che la sinistra italiana — e in generale quella europea — sembra aver smarrito per strada: il coraggio. Non quello di scendere in piazza con lo striscione giusto, ma quello di dire una parola chiara quando serve. Oggi preferisce il silenzio, che almeno non dispiace a nessuno. Così, quando un’ospite divisiva interrompe una cerimonia pubblica a Reggio Emilia, il sindaco resta zitto, sperando che passi. E passa, sì: passa come passa sempre il coraggio, in cerca di altri lidi.
A Bologna non va meglio. La giunta progressista premia con la cittadinanza onoraria una giurista che ha pronunciato parole incommentabili sul popolo ebraico e su Liliana Segre. Si giustificano dicendo che “la democrazia è dialogo”. Certo: anche il paradosso lo è, ma non per questo merita una targa d’argento. La retorica dell’apertura ha ormai sostituito quella della responsabilità: tutto è comprensibile, tutto è “complesso”, purché non si debba scegliere da che parte stare.
E poi c’è Roma. Lì il Partito Democratico, che da anni recita il mantra della “pace costruita con la politica”, riesce nella prodezza di astenersi o votare contro le mozioni sul piano di pace Trump. Piano discutibile, d’accordo, ma almeno esisteva. Meglio rimanere equidistanti, diranno: un modo elegante per non disturbare la piazza in subbuglio e non irritare l’alleato Conte. È la nuova arte diplomatica della sinistra: non dire mai “no”, ma neppure “sì”. Così si evita di sbagliare, e di governare.
Intanto l’Europa, culla di ogni virtù, continua a farsi cullare. In vent’anni di governi progressisti, non un passo deciso verso una politica estera comune, non un gesto di autonomia vera. L’Unione resta ostaggio del “volemose bene” continentale: accoglienza, inclusione, ambientalismo — tutti valori nobili, svuotati fino a diventare un balsamo per la coscienza. Il risultato? Un’Europa che parla come un parroco e agisce come un condominio.
Quando il governo Meloni osa evocare l’idea di un’Europa politica e coesa, dalla sinistra partono le risate: “populismo, propaganda”. Eppure, se si guarda indietro, non si trova un solo esecutivo a guida PD che abbia davvero “alzato la voce” in Europa. Sulla difesa comune, la sicurezza energetica, la presenza nel Mediterraneo: solo silenzi, commissioni, e grandi dichiarazioni di principio. Poi, quando Ursula von der Leyen presenta ReArmUE, un timido passo verso la difesa comune, la sinistra storce il naso. Forse l’Europa armata rovina la foto di gruppo della pace perpetua.
Il dramma è che, dietro la maschera dei buoni sentimenti, la sinistra ha smarrito il senso del reale. Si commuove per la pace, ma non osa difenderla. Invoca il dialogo, ma solo con chi non la contraddice. Condanna la guerra, ma resta in silenzio quando gli amici ideologici lanciano razzi. E se qualcuno osa ricordare che Hamas non è un movimento di liberazione ma un’organizzazione terroristica, ecco che subito arriva l’accusa di “mancanza di sensibilità”.
È questo, in fondo, il grande equivoco progressista: credere che il bene si costruisca evitando il male, non affrontandolo. Ma il mondo non funziona così. Mentre l’Europa si guarda allo specchio e il Pd si spacca fra identità e prudenza, la realtà scorre via, indifferente alle mozioni e ai comunicati. E la politica, quella vera, la fanno gli altri — con i loro difetti, certo, ma anche con la loro decisione.
Forse un giorno la sinistra tornerà a essere forza di governo, non di condominio. Per ora, resta lì: a metà fra la morale e la paura. Con la pace nel cuore, e il microfono spento
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